Pietro, tu hai avuto un ruolo importante nella politica italiana, con un impegno continuo in questo campo. Come sono cambiati secondo te la politica e il modo di fare politica negli anni?

Ho lasciato “ruoli importanti” definitivamente nel 2008, in coincidenza con nuove esigenze familiari – erano arrivati due figli piccoli, e mi dovevo impegnare per loro – prendendo atto di una mia crisi individuale profonda. Non mi riconoscevo più nelle forze politiche della sinistra che sulla carta avrebbero dovuto rappresentare i miei valori. Ho preferito, arrivato a cinquant’anni, cercare forme nuove per battermi per le mie idee. Quella più prossima alla mia sensibilità è stata l’attività culturale. Sognavo di realizzare una fabbrica di cultura indipendente, al servizio delle idee di uguaglianza. Quindici anni dopo, con un po’ di soddisfazione, penso di aver realizzato una prima parte di questo progetto, principalmente attraverso l’attività di MetaMorfosi. Venendo alla tua domanda, se nel 2008 facevo fatica a riconoscermi in una politica tutta schiacciata sull’eterno presente, oggi devo constatare che questa tendenza si è fortemente accentuata. La politica dei partiti oggi coincide con la loro rappresentanza istituzionale e si è completamente perduta  una loro funzione sociale, morale, culturale, di progetto. Conta solo il tweet, l’oggi, senza ieri e senza domani. Si è rimossa la lezione di Carlo Levi, “il futuro ha un cuore antico”.

Oggi viviamo questo conflitto armato tra Russia e Ucraina dopo due anni di pandemia. Qual è il tuo pensiero su questo difficile e anche preoccupante momento storico?

Siamo davvero sull’orlo di un baratro, anche nucleare. Per troppi anni l’Occidente, di cui si parla molto a sproposito in questi giorni, si è cullato nell’idea che, dopo il crollo del Muro di Berlino e la rovinosa caduta delle dittature staliniste nell’Est dell’Europa, il capitalismo sfrenato non avesse alternative. “There is no alternative”, come ripeteva Margaret Thatcher, la premier conservatrice britannica. TINA, come si è poi detto, è diventata l’ideologia trasversale del dopo ’89. L’allora primo ministro tedesco socialdemocratico, Gerard Schroeder, fece sua questa affermazione (“Es gibt keine Alternative”), per poi finire per fare affari col gas russo e col capitalismo selvaggio che in quel grandissimo paese si è affermato nell’ultimo  trentennio. Da un lato la Russia era terreno di caccia per il grande capitale finanziario, dall’altro, anziché smantellare le alleanze militari della guerra fredda, la NATO ha continuato a riarmarsi e a espandersi a Est. Tutto ciò ha seminato i nuovi germi nazionalisti e populisti negli ex Paesi comunisti dell’Europa Orientale, frettolosamente accorpati all’Unione Europea, in Ucraina e soprattutto in Russia. Un sentimento di rivalsa e di ostilità ha preso piede e si è radicato. Negli anni del terrorismo fondamentalista islamico, la Russia, col consenso dell’Occidente, è brutalmente intervenuta nelle aree di crisi. Il militarismo nazionalista di Vladimir Putin si è convinto di poter risolvere le questioni manu militari. Dopo la crisi del 2014, si erano definiti degli accordi a Minsk, a proposito dell’assetto dell’Ucraina, che sono stati del tutto disattesi.

L’aggressione russa all’Ucraina è un crimine gravissimo, accompagnato da violazioni sistematiche di tutte le convenzioni internazionali. Ritengo giusto supportare la resistenza civile ucraina, ma ritengo profondamente sbagliata la strategia statunitense, appoggiata passivamente da molti Paesi europei tra cui l’Italia, di pensare di battere militarmente Putin e di umiliare la Russia. In questi mesi di conflitto non si è fatto alcuno sforzo serio per giungere a una tregua, per tutelare la popolazione civile, per lavorare per la pace. Spero che l’Europa, Francia e Germania prima di tutto, facciano sentire con determinazione un punto di vista europeo.

Si evince che questa guerra porti in seno interessi altri, di natura geopolitica, economica e dell’industria bellica. Che ne pensi e che ruolo ha secondo te una super potenza come la Cina in tutto questo?

Si stanno giocando con tutta evidenza partite importantissime sul gas, sulle fonti energetiche, sul grano, sulle materie prime, ma la partita più rilevante riguarda l’Europa, l’idea nata a Ventotene con Altiero Spinelli, il faticoso e contradditorio processo di costruzione di una realtà politica pluri e sovranazionale. Gli USA intervengono pesantemente nello scenario europeo al fine di realizzare i propri interessi nazionali. Sembra molto lontano lo spirito universalistico della presidenza di Barack Obama e purtroppo Joe Biden sembra animato nei fatti da quella stessa ideologica dell’America First che aveva portato Donald Trump alla vittoria. La Cina sembra fortemente inquieta a causa della guerra che, dopo la pandemia, ha rallentato o interrotto il processo di realizzazione della “nuova via della seta”, con l’Europa. Sulla carta a me sembra che la Cina, come l’Europa a guida franco-tedesca, dovrebbe essere interessata a una rapida fine delle ostilità.

Abbiamo un diritto internazionale umanitario che contiene le norme e i principi che restringono la libertà degli Stati nel condurre le ostilità durante i conflitti armati e un articolo della nostra Costituzione, l’articolo 11, che afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali. Sembra esserci sempre un grande divario tra norme anche di tipo giuridico e costituzionali con quella che è la realtà dei fatti. Cosa pensi in merito?

La costruzione di strumenti – come il Tribunale Penale Internazionale – che rendano il diritto umanitario e le sue norme effettivamente esigibili è ancora lenta e ostacolata da tutte le grandi potenze. Il tema principale mi sembra quello che Enrico Berlinguer chiamava “il governo del mondo”. Occorre dare all’ONU e agli strumenti di governance globale poteri effettivi. Il modo in cui l’Occidente ha guardato alla missione del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierres, a Mosca e a Kiev è stato di supponenza umiliante. Credo che l’impegno principale della fase nuova che si è aperta – non da oggi, come ho detto – sia quello di dare efficacia e potere reale alle grandi organizzazioni internazionali. L’Italia ha un Costituzione, come tu ricordi, molto avanzata e non può deflettere dai valori scolpiti nell’articolo 11; anche per questo occorre chiedere al Parlamento e al governo di cambiare passo e di assumere una forte iniziativa per la pace.

Nel tuo libro “Servirsi del Popolo”, edito da La Nave di Teseo, parli della condizione populista che in passato ha portato dittature e che oggi rischia di andare verso sentimenti di estrema destra. Forse il nazi-fascismo non è mai finito del tutto e rischia di restare uno spettro sempre presente nella coscienza collettiva?

Sostenevo, quasi due anni fa, che era un’illusione pensare che con la pandemia e la necessità di rimettere attenzione a beni comuni come la salute, e a uscire da una regressione turbo-liberista, fosse finita la stagione populista. Tutto quello che è successo, a causa degli scenari che ho descritto e dell’assenza di un governo mondiale, o almeno di un equilibrio mondiale, foraggia e alimenta nazionalismi, odi, contrapposizioni. Rischiamo una lunga stagione di guerre feroci e pericolose, in un mondo troppo ingiusto, che rischia prima di tutto la catastrofe ambientale e una nuova crisi alimentare. Le forme politiche di questi nazionalismi non saranno solo quelle nazifasciste, conosciute nel Novecento, ma il fascino agghiacciante che quelle ideologie di morte esercitano sui nuovi nazionalismi è palese. Tra svastica e Zeta a me sembra che ci siano profonde analogie. Per questa ragione è necessario contrapporre a quei nazionalismi un’idea plurinazionale, che non umili le radici e le specificità, non dominata da quello che Luciano Gallino definiva Finanzcapitalismo. Parlerei del bisogno di un universalismo plurinazionale, di quella che Jurgen Habermas ha chiamato “la costellazione post-nazionale”.

Che tipo di influenza hanno avuto i tuoi genitori, tuo padre Giancarlo Folena, docente universitario, linguista e filologo e tua madre pittrice e poetessa? Quanto hanno contribuito alla tua formazione culturale, alla tua sensibilità e anche alle tue scelte?

Come tutti i ragazzi degli anni ’70, ho contestato i miei genitori e ho cercato strade diverse dalle loro, ma senza dubbio l’influenza che hanno esercitato su di me è stata grandissima. Ho davvero avuto un’immensa fortuna. Ho cercato di ricordare l’eredità di mio padre, che era un socialista e il suo amore per la lingua come vita, con un ciclo di eventi e pubblicazioni molto importanti nel centenario della sua nascita. Sto pensando a nuovi progetti per raccontare la figura eretica di mia madre, pittrice, poetessa, intellettuale e madre dolcissima, che nel mondo maschilista del Novecento, accanto a un intellettuale così importante, non ha trovato il giusto e meritato riconoscimento. Umanesimo, socialismo, cristianesimo sociale, esistenzialismo sono state alcune delle fonti della mia formazione. La mia seconda famiglia, poi, è stata quella del PCI di Berlinguer, che mi ha permesso, senza mai rinunciare alla mia libertà di pensiero, di battermi per una società più giusta e attraverso la quale ho trovato il mio ruolo sociale.

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di un grande intellettuale e scrittore italiano, Pier Paolo Pasolini, considerato da molti il più grande pensatore del nostro tempo. Quanto è attuale secondo te il suo pensiero?

Sul piano politico e culturale Pasolini è stato l’intellettuale che di più ha contribuito alla lettura critica della modernizzazione neocapitalista avvenuta in Italia. Il suo legame col popolo, in chiave assolutamente anti-populista, è un legame sentimentale e carnale e la sua lotta è finalizzata alla necessità che il mondo dei consumi, della tv, dell’urbanizzazione selvaggia non distrugga l’umano, non comprima le esistenze, non recida le radici. In questo senso lo vedo come una grande erede di Antonio Gramsci, forse animato più dal pessimismo della ragione che non dall’ottimismo della volontà.

Cosa pensi dell’ultima opera di Pasolini, “Salò e le 120 giornate di Sodoma”? Un’opera filmica così cruda e dura, ma anche visionaria e reale. Alcune scene del film rimandano agli orribili fatti accaduti nel carcere di Abu Ghraib o di Guantanamo, con le torture compiute sui prigionieri, o ai recenti eventi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Secondo te il film è equiparabile a “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault?

Hai già dato tu la risposta, Dale, con la tua sensibilità artistica e poetica. Sono d’accordo con te. “Salò e le 120 giornate di Sodoma” rimane un capolavoro incompiuto di Pasolini – come d’altra parte il suo romanzo  “Petrolio” . Forse non il più grande dei suoi film, ma certamente il più visionario, in qualche modo distopico, negli stessi anni in cui Andrei Tarkosvkji aveva realizzato “Solaris”. In quest’opera, come in Foucault e negli episodi che tu citi, c’è la consapevolezza che il male assoluto è dentro di noi e in ogni momento può riaffiorare o farsi sistema.

Il 5 giugno a Roma durante il Festival del libro per la pace e la nonviolenza che si terrà nel quartiere di San Lorenzo, presenterai il tuo libro su Berlinguer e Papa Francesco, Enrico e Francesco, Castelvecchi Editore. Cosa accomuna queste due personalità, cosa le lega?

In questo libro c’è un’operazione culturale diacronica fra persone di tempi diversi. Tuttavia ciò che permette e legittima questo confronto sono quelli che Berlinguer stesso chiamava i “pensieri lunghi”. Quelli che mancano, come dicevo, nella politica di oggi. L’umanità – come chiede il mondo pacifista e nonviolento, come chiedono Fridays for Future, Me Too, il cristianesimo sociale di Francesco e tante istanze civili e sociali diffuse – si può salvare se prevarranno nuovi pensieri lunghi. Io chiamo tutto questo con un nome che ha un cuore antico: socialismo.