Ricordo quando una volta alla radio un sindacalista disse: “E’ diverso fare il sindacalista a Bologna o in Sicilia…” Quando ho sentito gli interventi di Murat Cinar ho pensato: “E’ diverso fare il giornalista in Italia o in Turchia…” Così ho pensato che una volta tanto potevo intervistare un giornalista.

Murat, raccontaci della tua infanzia

Sono nato nel 1981 a Istanbul, la città più grande del paese, in piena dittatura militare dopo che nel 1980 un gruppo preparato dalla CIA aveva organizzato un colpo di stato. Una dittatura di estrema destra, fascista; c’era un completo monopolio dello Stato, dal latte al formaggio, dal pane al giornale, era tutto di produzione statale, divieto di importare prodotti stranieri, di usare moneta straniera. Nell’84 siano entrati in una fase nuova di libero commercio. Parlando della “dottrina dello shock” Naomi Klein descrive il golpe in Turchia in parallelo a quello cileno; se in Cile stanno riuscendo a riscrivere la Costituzione, in Turchia c’è ancora quella della dittatura di allora. Le storie di questi due paesi hanno parecchio in comune.

Io sono cresciuto in un quartiere a due passi dalla vecchia Costantinopoli, pieno di armeni e con alcuni vicini ebrei e alla fine la zona dei Rom, dove “era bene non andare…”. Alle elementari in classe eravamo in 81! La maestra era formidabile, molto severa, riuscì ad insegnare a tutti noi a leggere e scrivere. Quando facevamo educazione fisica in cortile, lei stava alla finestra al secondo piano, con un occhio guardava noi che dovevamo obbedire ad un compagno e una compagna un po’ grossi e con l’altro correggeva i compiti. Nel pomeriggio tutti in strada a giocare, ma senza attraversare quella linea di confine col quartiere Rom. Io sono cresciuto attorniato da diverse lingue, religioni, feste e pregiudizi. Armeni, ebrei, rom, erano tutte “minacce”… Un quartiere strano, c’era anche paura, ma alla Pasqua ortodossa i nostri amici armeni ci regalavano uova colorate. Era un quartiere duro, dove c’era di tutto. Malgrado la dittatura siamo cresciuti con tanti stimoli e poi siamo diventati di tutto: dal fondamentalista, al boss mafioso, a ottime persone e siamo ancora in contatto!

La tua famiglia?

Mio padre era un operaio tessile, sindacalista, comunista; la mia prima scuola fu a casa. Mio padre, nato nel 1948, veniva da una famiglia particolare: mia nonna era molto istruita, aveva una macchina da scrivere e sapeva far di conto, ma era mio nonno che lavorava, era un ferroviere e costrinse mio padre a lavorare fin dai 13 anni. Riuscì comunque a formarsi e divenne un attivista nel più grande sindacato, che si chiamava Sindacato dei lavoratori rivoluzionari della Turchia. L’attivismo negli anni Settanta era in gran parte clandestino e con il colpo di stato mio padre divenne un ricercato. Furono sul punto di trasferirsi negli USA, ma alla fine rimasero in Turchia; forse la sua condanna cadde in prescrizione. Ricominciò a lavorare in una fabbrica tessile e col passare degli anni divenne un dirigente. I suoi compagni di quell’epoca sono diventati politici, scrittori, intellettuali. Comunque i libri li ho conosciuti grazie a mio padre. Ha formato me e mio fratello: ogni sera c’era un “ripasso storico”, davanti a un libro o a un dibattito politico in TV.

Non ero bravo sul piano del comportamento, ma sono sempre stato un secchione; grazie a delle borse di studio ho fatto medie e superiori in una scuola privata laica e rinomata, da cui è uscita buona parte dell’intellighenzia turca. 

Che rapporto c’era fra la dittatura che hai conosciuto da bambino e la religione musulmana?

Apparentemente erano laici e ben vestiti, nulla a che vedere con i “barbuti”, ma in realtà tutti i passaggi che hanno aperto la strada al fondamentalismo sono avvenuti allora: hanno aperto un sacco di scuole coraniche statali, hanno reso più dogmatico il contenuto dei testi universitari, hanno sostenuto le comunità religiose. Dall’Italia fino all’Afganistan, passando per la Grecia, qualsiasi gruppo di destra in funzione “anticomunista” ha ricevuto sostegno, a partire da Gladio qui in Italia. In Turchia quel colpo di stato organizzato e finanziato dalla CIA fa parte di questo quadro. Già pochi anni dopo il golpe alti dirigenti della polizia turca ammettevano tranquillamente di essere stati formati in centri illegali dalla CIA, per esempio in Anatolia.

In quegli anni tutti gli oppositori – che fossero armeni, curdi, sindacalisti, socialisti o comunisti, insegnanti sindacalizzati, musulmani moderati (gli alawiti, per esempio, sono un po’ come i valdesi per i cristiani…)  -venivano imprigionati, torturati, impiccati. A un congresso degli alawiti in Belgio uno dei leader disse che in quegli anni in Turchia circa due milioni di alawiti erano stati sospesi dall’impiego pubblico, arrestati, incarcerati, assassinati o obbligati a lasciare il paese; se ne sono salvati 3 o 4 milioni solo grazie all’accoglienza europea.

Negli anni Cinquanta e Sessanta l’emigrazione turca era fatta soprattutto di persone povere, con precedenti o poco istruite, mentre negli anni Settanta e Ottanta ci fu la prima emigrazione in massa per motivi politici. D’altra parte la Germania aveva bisogno di mano d’opera, braccia a basso costo, non voleva “mal di testa”… Il golpe avviene nell’80, ma già negli anni Settanta gli scontri di piazza erano violenti, c’erano gruppi armati di destra che attaccavano gli oppositori. Dopo la Germania negli anni Ottanta le principali destinazioni sono state Francia, Belgio, Austria e Svizzera. Dopo altre due ondate di emigrazione politica negli anni Novanta, dal 2013 in poi c’è stata una nuova diaspora di gente molto istruita – studenti, professori, avvocati, giudici, alti funzionari anche dell’esercito o della polizia.

Torniamo a te

Ho studiato finanzia internazionale all’università, grazie ad un’altra borsa di studio, ma la mia passione era diventare avvocato o giornalista. Mio padre me lo ha impedito fino a che ha potuto, poi siamo arrivati a un compromesso: avrei studiato queste materie, ma all’estero e con i miei soldi. Ho scelto l’Italia, dove sono arrivato nel 2001, prima a Siena per studiare bene l’italiano. Ho fatto il lavapiatti, l’aiuto cuoco, il cameriere e intanto studiavo. Certo arrivare direttamente a Siena ebbe un forte impatto, se tutta l’Italia era così, dov’ero capitato!! Poi scoprii Firenze e Roma e capii che esistevano anche delle strade larghe… Dopo un anno mi trasferii a Torino.

Avevo il sogno di diventare giornalista, ma dovevo capire a fondo la lingua e la cultura del paese dove mi trovavo. Ho studiato cinema, televisione, giornalismo. Ci ho messo 10 anni per poter scrivere un articolo comprensibile e che valesse la pena di leggere. Avrei potuto scrivere prima per dei media turchi, ma a loro interessavano solo gli scandali di Berlusconi, le idiozie dette dal Papa sui musulmani, il calcio o la cucina e nulla di tutto ciò mi interessava. Da 20 anni i corrispondenti turchi delle grandi testate si occupano in sostanza di questo. Ho lavorato invece parecchio nel campo degli audiovisivi, ero stato abile e fortunato: al DAMS, dove avevo studiato, la preparazione tecnica era scarsa, ma io ero uno “smanettone” e con un computer avevo imparato a usare i microfoni, montare, tutto. Questo perché avevo seguito uno studente serbo: se andavi dietro ai serbi imparavi, erano i più bravi. Poi ho lavorato molto come traduttore, anche per il carcere e il tribunale e lì ho imparato tantissimo, anche del linguaggio tecnico, che poi mi sarebbe servito come giornalista. Ora da 10 anni lavoro nel campo del giornalismo. Sono sempre più specializzato sul giornalismo su internet, che è sempre più una categoria a parte.

Come si è evoluto il tuo rapporto con la Turchia?

Nel 2010 ci fu un referendum importante, pericoloso e mi sentii in dovere di raccontare quello che stava accadendo nel mio paese. Scrissi un lavoro di sette pagine, che poi ridussi a due; fu il mio primo articolo per Pressenza, che avevo appena conosciuto per caso (durante uno sciopero della fame a staffetta contro il TAV che stavamo facendo in una tenda in piazza Castello a Torino). Da quel periodo ho cominciato a scrivere sempre di più su quello che avveniva in Turchia e i riscontri erano positivi. La Turchia era in subbuglio, c’erano moltissimi prigionieri politici in carcere. In quegli anni ero molto attivo nelle lotte antirazziste a Torino, ho conosciuto persone molto belle le quali a poco a poco mi hanno invitato in varie situazioni a parlare di Turchia e così i due mondi si sono intrecciati. Ho parlato da radio Black Out alla Rai.

Fino a quattro anni fa sono sempre rientrato in Turchia; avevo un po’ di paura, ma non è mai successo niente. Dopo il mio secondo libro che parlava di repressione alcuni miei amici avvocati in Turchia mi hanno consigliato di non tornare più. I miei familiari erano d’accordo con questa decisione. Non ci vado più da quattro anni; all’inizio mi pesava un sacco, soprattutto perché la vivevo come una privazione della mia libertà, di un mio diritto, ma poi mi è passata.

Ci aiuti a ricostruire la lotta di Gezi Park?

Iniziò come presidio di 4 o 5 ragazzi con delle tende, perché dopo anni di raccolte firme, ricorsi e altro, il Comune di Istambul non aveva cambiato posizione ed era deciso a tagliare questi alberi secolari dell’unico parco nel cuore della vecchia Bisanzio. I giovani si erano piazzati lì sapendo che il giorno dopo ci sarebbe stato il taglio. La risposta della polizia fu quella classica: una violenza spropositata, botte, lacrimogeni e un enorme falò con le loro poche cose, alle dieci di sera del 30 maggio 2013 in pieno centro. Tutta la gente lo vide e questa azione poliziesca si trasformò in un boomerang. La voce si sparse, il video girò in una città di 17 milioni di abitanti. Nel giro di poche ore i giovani erano centinaia e quando il giorno dopo sono arrivate le ruspe c’erano anche dei parlamentari. Tutti hanno saputo la storia del parco, ma soprattutto si è riversata lì tutta la rabbia accumulata negli ultimi anni nei confronti del governo (spazio dato a gruppi religiosi fondamentalisti, scuole coraniche, divieto di alcolici in molti luoghi, spionaggio diffuso, repressione, galera). Considera che nel 2008 c’erano 66 giornalisti in carcere, il capo dello stato maggiore venne imprigionato e tenuto in isolamento per tre anni e poi sindacalisti, avvocati, professori. La società era stremata dai soprusi. Così in tre giorni la polizia finì tutte le scorte di lacrimogeni e ne comprò di scaduti in tutta fretta dal Brasile e dalla Corea del Sud. Molti delle vittime successive morirono per aver respirato il fumo di quei lacrimogeni scaduti.

L’esperienza intorno a quel parco fu sensazionale, senza precedenti, orizzontale, di mille colori, musulmani e anticapitalisti, anarchici e tifoserie dello stadio, fricchettoni che facevano yoga in centinaia. Secondo dati del Ministro degli interni in Turchia ci furono tre mesi di manifestazioni in 67 delle 81 città del paese. Nei primi quindici giorni la polizia uccise otto giovani. La rabbia cresceva e i media tacevano. Tutti hanno capito che i canali televisivi che seguivano ogni sera mentivano, manipolavano o tacevano. Sono sorti media alternativi, il governo si è spaventato ancora di più e la repressione è cresciuta in maniera esponenziale.

Foto http://turchia.over-blog.com/

La resistenza è durata fino al mese di ottobre, poi la gente, di fronte a tanta violenza e repressione, non ce l’ha più fatta. Hanno arrestato e arrestato, perfino i medici che soccorrevano i feriti per strada, perfino gli imam che aprivano le porte delle moschee per accogliere i manifestanti che scappavano, hanno punito i poliziotti che si rifiutavano di manganellare. Il governo ha represso duramente e ha investito grandi quantità di denaro nei media affinché mentissero e pubblicassero foto e video truccati. La protesta è stata criminalizzata agli occhi di chi era rimasto a casa, fino a dire che si era trattato di un tentativo di colpo di stato finanziato dall’estero. Hanno polarizzato la società in “brave persone” e “nemici dello stato”. Il governo turco alla fine ce l’ha fatta e tanti giovani se ne sono andati dal paese.

Cosa è rimasto? Nel cuore e nelle menti di chi vi ha partecipato è rimasta un’esperienza senza precedenti, la gente ha VISTO come dal nulla, dal basso (senza dietro un leader, un filosofo, un gruppo armato…) sia possibile costruire un’alternativa a questo sistema corrotto, un’alternativa basata sulla democrazia diretta. Si è davvero detto: “Il re è nudo!” C’erano assemblee di mille, duemila persone che arrivavano a delle conclusioni senza votazioni, cercando delle sintesi di consenso generale. Questo ricordo rimane. Come è rimasta, nel governo, una paura pazzesca che tutto ciò ritorni. Tanto che ancora adesso, dopo sette anni, vi sono processi contro presunti istigatori o finanziatori di quel movimento. Comunque gli alberi di Gezi Park sono stati salvati, anche se la cementificazione ha fatto danni enormi.

Che funzione ha il governo turco rispetto alle politiche migratorie europee?

L’accordo sui rifugiati ha un taglio di reciproco sfruttamento ed egoismo. I governi europei delegano alla Turchia la gestione del flusso migratorio, accettano di lasciare il futuro di milioni di persone nelle mani di un governo corrotto e criminale, che reprime già il suo popolo e aumenta di giorno in giorno la censura. Ma facendo così, la parte europea ovviamente tiene il suo giardino pulito, anche perché oggi in Europa esistono pochissimi partiti politici che sarebbero in grado di vincere le elezioni senza inserire la famosa voce di “lotta all’immigrazione irregolare” nel loro programma elettorale. Questa fantomatica “lotta” è ovviamente un’ottima copertura, dal momento che nessuno ha elaborato una seria e reale politica per affrontare la crisi economica e climatica che cresce dal 2006 ad oggi.

Ankara punta ovviamente sull’incasso di una sostanziosa somma che diverse ONG in Turchia userebbero per organizzare dei sistemi di accoglienza. Dal punto di vista politico, grazie all’accordo sui migranti Ankara possiede ormai un elemento di ricatto sia nella politica interna sia in quella estera nei confronti di tutti coloro che vorrebbero mettere in discussione le sue politiche, soprattutto in Siria.

Erdogan ha assunto in toto la funzione di gendarme e “spazzino” delle vergogne, ipocrisie, miserie, dell’Unione Europea. In sei anni sono entrati in Turchia circa 5 milioni di rifugiati, facendone il paese con il maggior numero di rifugiati al mondo. Vivevano inizialmente in gran parte in enormi campi profughi alle porte della Siria, poi si sono sparsi per il territorio. Solo poco più di 40.000 hanno il permesso di lavoro; tutti gli altri “si arrangiano”. Per molti profughi la Turchia era la meta prima e necessaria nella loro fuga dalla guerra; se per molti c’era la speranza di passare poi in Europa, questa è terminata quando la Turchia ha accettato di fungere da contenitore-gendarme.  La Turchia è diventata una trappola; l’Europa non voleva queste masse di migranti neanche a Lesbo, figuriamoci a Berlino. All’inizio cercavano di scappare in Bulgaria, poi quel confine è stato chiuso duramente. La via di fuga è diventata la Grecia, il fiume che segna il confine e il tratto di mare che separa le sue isole. I punti di passaggio cambiano.

Foto di Medici senza Frontiere

A partire dall’incapacità dimostrata nella gestione del dramma siriano, la Turchia ha assolto il compito di fermare milioni di persone e ha potuto tenere più volte sotto scacco l’UE, ricattandola. Ci sono stati momenti in cui il governo di Erdogan ha “aperto i rubinetti” e in certi casi addirittura accompagnato coi pullman i rifugiati fino al confine con l’Europa, per poter poi alzare la posta. Ha guadagnato tanto, sia economicamente che politicamente. E continua a comprare armi in quantità da Germania, Francia, Spagna e Italia, armi che magari rivende in Somalia, Etiopia, Afghanistan o Pakistan… Insomma, con la Turchia si fanno ottimi affari.

Veniamo all’ultimo tema: come è possibile che avvengano queste morti in seguito a lunghissimi scioperi della fame senza che vi sia una forte reazione popolare? A volte erano personaggi assai noti. Penso alla cantante, all’avvocata….

In quei casi c’è stata una campagna denigratoria gigantesca: sono stati velocemente criminalizzati e indicati come terroristi. Queste campagne sono in buona parte riuscite. I media hanno avuto un ruolo centrale, ogni deontologia professionale è saltata. Erano dei simboli radicali, in quanto tali hanno potuto essere molto amati (penso ad un Mandela), ma anche diventare in pochi giorni dei “pazzi criminali”. I mix di criminalizzazione mediatica e repressione poliziesca (arresti, sequestri, chiusure, maxiprocessi) sono potenti. I dati al 24 marzo del 2020 dicono che nelle sovraffollate carceri turche sono detenute 318.000 persone. Secondo Amnesty International dal 2016 al 2019 160.000 persone sono state sottoposte a detenzione provvisoria e una buona parte di queste è ancora in carcere. In Turchia, come negli Usa, si continuano a costruire nuove carceri private.

Mi auguro che la coalizione al potere che strozza il paese se ne vada il prima possibile. L’alternativa c’è, eccome, sennò il governo non avrebbe tutta questa paura e non riempirebbe le carceri di oppositori. Le elezioni sarebbero previste per il 2023, ma io spero che, una volta lasciata alle spalle la pandemia, si vada a un voto anticipato.