Il lavoro collettivo sviluppato dagli studenti del Liceo Classico “Galluppi” di Catanzaro, a monte della conferenza dedicata al volume sui temi della “memoria” e della “pace” dal titolo La Pagina in Comune (Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2015), nell’ambito della XIV edizione della Fiera del Libro Gutenberg (quest’anno dedicata a “Demoni e Meraviglie”), è stato un lavoro strutturato e prezioso. Un lavoro così ben sviluppato e riccamente articolato da avere cambiato i connotati della conferenza stessa, che si è sempre più allontanata dal cliché della relazione dell’autore e domande del pubblico, per diventare piuttosto un forum di confronto e di co-elaborazione, con gli studenti che hanno illustrato le loro riflessioni e condiviso la loro lettura del testo, e l’autore che ha poi offerto una serie di approfondimenti e di rimandi su alcuni punti specifici dell’opera.

L’opera in questione è un lavoro abbastanza singolare: La Pagina in Comune, infatti, non è solo un testo, piuttosto sintetico e denso, intorno al nesso “memoria” e “pace” che, a partire da alcuni luoghi della memoria, materiali (come i luoghi monumentali presenti a Prishtina ed a Mitrovica, in Kosovo, o come i luoghi della socialità condivisa come la Kulla e, nelle case tradizionali, la Oda albanese, nella quale si radunano i familiari e gli ospiti e si esibiscono i valori del dialogo, del rispetto e dell’onore, della dignità e dell’ospitalità, che pure continuano a giocare un ruolo importante nella regione) o immateriali (come, tra gli altri, i contenuti di valore racchiusi in alcuni codici tradizionali, come nel caso del Kanun albanese, ed in alcune pratiche rituali, come nella celebrazione serbo-ortodossa della “slava”, il santo della casa), ricostruisce il senso emergente di questi luoghi e il sedimento di “cultura” e di “memoria” in esso racchiuso, che può svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dei legami sociali e, in definitiva, della “pace positiva”.

La Pagina in Comune è anche il documento di una ricerca-azione intorno alla percezione del post-conflitto kosovaro, nella quale non si sono solo indagati i motivi storici e sociali che hanno reso tali giacimenti culturali così interessanti ai fini del lavoro di pace, ma si sono anche effettuate delle indagini su un campione di 120 persone, soprattutto giovani, intorno alla loro percezione del conflitto, alle motivazioni del perdurante post-conflitto, con tutto il suo portato di divisione e separazione, di rottura dei legami sociali e debolezza della garanzia dei diritti, e alle condizioni di una possibile ricomposizione sociale (che gli studenti hanno prontamente individuato, recuperando il contenuto delle risposte dei giovani kosovari, nelle quali si punta l’attenzione sulla fragilità economica, la disoccupazione diffusa e la mancanza di prospettive, sulla carenza di occasioni di incontro, condivisione e reciprocità inter-etnica e multi-culturale, sulla inadeguatezza delle élite locali, spesso, in Kosovo, compromesse con la guerra e il portato di una lunga, dolorosa, stagione di violenza).

Coordinati dalla dirigente del Liceo, Elena De Filippis, orientati nel loro itinerario di ricerca dalla docente, Claudia Pulice, i giovani interlocutori, protagonisti della rassegna, hanno sviluppato, nel loro percorso, tutti i nodi salienti della narrazione da loro affrontata, se di narrazione, in senso generale, si può parlare, non trattandosi di ricostruzione narrativa o di finzione letteraria, bensì di saggistica, di uno studio, cioè, a partire dalla ricerca-azione poc’anzi segnalata, intorno alle possibilità offerte dal lavoro di pace a sfondo culturale in un contesto post-conflitto come l’odierno Kosovo, nel cuore dei Balcani. In prima battuta, l’interesse dei partecipanti si è rivolto ai presupposti della ricerca, incardinata all’interno della progettazione di cooperazione internazionale svolta dagli operatori di pace, che sviluppano un itinerario progettuale nel senso di costruire reciproche competenze, quali operatori professionali impegnati nelle situazioni di conflitto e post-conflitto, con compiti di prevenzione della violenza e di moderazione della escalazione, ma anche di individuazione delle cause della violenza e di potenziamento dei fattori di pace locali. Ovviamente, per progetti che si sviluppano su piccola scala, che non coinvolgono imponenti strutture e non impegnano ingenti finanziamenti, non è possibile stimolare tutti i fattori locali di pace, tra i quali peraltro, senza dubbio, vanno annoverati i potenziali dello sviluppo economico e di un ambiente favorevole ad un lavoro dignitoso per tutti i kosovari.

È possibile tuttavia, muovendosi sul terreno culturale, interrogare altri fattori, che appunto, sedimentando il terreno complesso della memoria e della cultura, possono segnalare tanto i potenziali di rischio e di minaccia alla condivisione e alla coesistenza, quanto i potenziali della relazione e della reciprocità. Il retaggio della storia di convivenza incorporato nella Jugoslavia Socialista e, per diversi aspetti, l’esperienza di un socialismo con caratteri di apertura e di autogestione, caso singolare nella storia dei paesi di “socialismo realizzato” dell’Europa centro-orientale; la lunga narrazione della “fratellanza ed unità” ed il carattere nonviolento originario dello stesso movimento nazionale dell’auto-determinazione kosovara; le caratteristiche del tessuto locale, insieme con il ruolo sociale dell’accoglienza, dell’ospitalità e del perdono che pure permangono, con tutto il loro portato di ambiguità e di ambivalenza, nelle strutture profonde delle comunità locali, sono alcuni di questi fattori, che provano ad esprimere le condizioni di aderenza dell’iniziativa al contesto (nella sua dimensione storica, sociale, culturale) ed a rappresentare le condizioni di fattibilità per una azione votata al “culture-oriented peace-building”, che interroga i giacimenti culturali per la costruzione della pace positiva.

Questo percorso, lungo la falsariga della narrazione racchiusa nel volume, si è svolto all’interno di percorsi pubblici di attivazione: dapprima, con il progetto P.U.L.S.A.R. (Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile), con il sostegno della Tavola Valdese, quindi, nella fase attuale, con il progetto PRO.ME.T.E.O. (Productive Memories to Trigger and Enhance Opportunities), con il sostegno del Comune di Napoli, che pure aveva, anni prima, sostenuto, con il progetto dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, la prima sperimentazione di un ente locale esplicitamente dedicata ai Corpi Civili di Pace in zona di conflitto. Innestare il concetto del “culture-oriented peace-building” all’interno dello spazio di azione proprio dei Corpi Civili di Pace significa, in Kosovo, anzitutto riflettere sulla sua ricchezza sociale, culturale, comunitaria: su un Kosovo, sorprendentemente, molto più come luogo di bellezze o di scoperte, attraversato da un singolare dinamismo giovanile e associativo e ricco di giacimenti memoriali, che come luogo di guerra e di divisione, costantemente schiacciato nel mortificante cliché di un “eterno dopoguerra” o del “buco nero” d’Europa.

Non a caso, un ulteriore aspetto che, nella loro ricerca, gli studenti hanno sollevato è stato quello dei “luoghi della memoria”, facendo riferimento, come indicato anche nel volume, alla ricerca seminale di Pierre Nora e dei suoi Les Lieux de Mémoire (1984-1992), con cui si è dato impulso ad un filone di ricerca particolarmente vivo e stimolante. Il luogo della memoria resta associato, infatti, alla “memoria collettiva”, secondo due ipotesi di ricerca: da un lato, i luoghi della memoria (che possono essere, peraltro, materiali o immateriali, luoghi fisici o figurati) come “istanze” in cui si condensano stratificazioni di memoria (intesa come memoria collettiva) profonde, dotate cioè di una “eccedenza semantica”, il cui valore trascende il senso in sé del luogo e si arricchisce del valore aggiunto di un patrimonio riconosciuto; luoghi, cioè, che la comunità riconosce come salienti in quanto propri, perché vi si attribuiscono significati profondi o perché vi si sono svolti eventi importanti; dall’altro, la “memoria collettiva” come patrimonio di acquisizioni in cui la comunità si riconosce ed in cui rinviene i giacimenti della propria identità, a sua volta molteplice e cangiante, anche in relazione alle manipolazioni che le élite esercitano sulle trame delle memorie come legittimazione di nuove narrazioni.

I Balcani e, in particolare, il Kosovo, sono ricchi di “luoghi della memoria” e, al di là di questi, sono luogo in cui il rovesciamento e la manipolazione delle memorie collettive si sono esercitati con particolare intensità, circostanza, quest’ultima, che li accomuna a diversi altri contesti di post-conflitto: qui la memoria dei “vinti” (tra cui le minoranze etniche e gli attivisti nonviolenti) è stata sostituita da una memoria dei “vincitori”, fondata sul mito della guerriglia armata e della violenza separatista, dalle cui file peraltro proviene una parte consistente dell’attuale gruppo dirigente (si vedano, a titolo di esempio, i mausolei della guerriglia). Non che manchi un’altra tradizione, più antica e, quindi, difficile da recuperare, ma non per questo meno vivace ed autentica: la tradizione dell’ospitalità e dell’inclusione che si concretizza in altri luoghi di rilievo, ulteriore aspetto, quest’ultimo, su cui gli studenti hanno focalizzato la propria attenzione, la Oda albanese (la sala delle riunioni e degli incontri degli uomini, al cui centro trovavano posto il braciere, uno o più tappeti, gli oggetti simbolici e gli arredi domestici, spesso anche una “qibla”, ad indicare la direzione della Mecca), piuttosto che la Kulla sud-balcanica (i fortini, le residenze fortificate dotate di cortile, alte e tozze, dai muri spessi e solidamente fortificate, in un singolare sincretismo di edificio residenziale diffuso tra l’Albania, la Serbia meridionale, il Montenegro) o, per i serbi, l’importanza del Monastero, come centro della vita comunitaria.

In una successiva relazione, gli studenti hanno messo a fuoco un ulteriore tema della ricerca che, peraltro, rimanda all’intervista a Mirjana Menković, direttrice del Museo Etnografico di Belgrado, secondo la quale si avverte molto più l’esigenza, anziché di memoriali o epitomi celebrativi, di istituzioni culturali efficaci e di luoghi educativi adeguati, non solo ai fini della “trasmissione” della memoria presso le giovani generazioni, ma anche nel senso della “rivitalizzazione” delle memorie come base per una narrazione culturale ricca di senso e, almeno relativamente, immune dalle manipolazioni della propaganda. Se, infatti, la memoria collettiva è una base identitaria forte, essa può essere ripercorsa criticamente, come, ad esempio, è possibile fare attraverso il Kanun, il codice consuetudinario albanese, che, pur essendo portato di tradizioni ancestrali e retaggi patriarcali, profondamente regressivi, tuttavia mette in luce ideali e valori dotati di una proiezione fortemente costruttiva, dalla dignità, all’onore, alla promessa (la besa). Questi patrimoni immateriali, messi in luce nella ricerca e ricapitolati dagli studenti, mostrano, sovente, al di là dell’attinenza con le culture tradizionali e la vitalità sociale della regione, sfaccettature culturali particolarmente composite e ricche, come nella tradizione del Djurdjevdan (la festa di S. Giorgio, vera e propria “festa della primavera” trans-culturale)  o nella tradizione della Slava (la celebrazione del santo della casa, una eredità pre-cristiana scaturita dal culto del dio, tra i vari dei, protettore della casa), oggi patrimonio mondiale immateriale UNESCO dell’umanità.

Anche qui si rinviene un passaggio trans-culturale ed anche questo aspetto è stato sollevato dagli studenti: non mancando di dedicare un accenno all’odierna, drammatica ed epocale, vicenda delle migrazioni e degli esodi lungo la “rotta balcanica”, lungo la quale si intrecciano e si confondono le epopee migratorie della povertà e della guerra, e aprendo un ulteriore, esigente, sguardo in prospettiva sulla regione e l’Europa tutta.