Apparentemente l’Europa si è accorta da tre giorni che il Libano è rimasto al buio e le agenzie vanno battendo i tratti fondamentali della notizia: è finito il carburante, le centrali di Al-Zahrani e Deir Ammar si sono spente, tutto il paese è in black-out, è arrivato il carburante dell’esercito, basterà per poco, fino a giovedì ci sarà un po’ di luce, poi ricomincerà il buio totale.

Su tutto questo, si aggiunge ieri mattina l’incendio di una cisterna di carburante a Zahrani, che ha mandato in fumo 250.000 litri del già rarissimo petrolio.

E’ tutto vero, come è vero che la mancanza di carburante si riflette sulle attività produttive, sui prezzi delle merci, sulla mobilità che è ormai diventata impossibile.

La povertà incombe, il ceto medio scompare, e le famiglie che non hanno parenti all’estero pronti ad inviare fresh dollars fanno fatica a portare la carne in tavola.

Soprattutto, è vero che gli ospedali sono in carenza, che i pazienti gravi non vengono ammessi per paura di azioni legali in caso manchi la possibilità di operare o di ventilarli, che il tema della salute ossessiona chi ha bambini piccoli o anziani a carico.

Ma questa situazione dura da tre mesi, non da tre giorni.

Infatti, è da agosto che il Libano è piegato dalla mancanza di elettricità, e non è molto differente averla per una o due ore al giorno o non averla per nulla: chi può aziona i generatori, chi non può si arrangia al lume di candela.

La luce elettrica è diventata un simbolo di status sociale, proprio come lo era all’inizio del secolo scorso, e si riflette pesantemente sulla vita delle famiglie.

Il prezzo del carburante per azionare i generatori è raddoppiato in due mesi a fronte di salari rimasti fermi e con un potere d’acquisto decimato: per avere 6 ore di elettricità al giorno per un appartamento di 35 metri quadrati, si è passati dalle 800.000 lire libanesi di luglio ai quasi due milioni (circa 120 euro) di oggi.

A gennaio l’elettricità dello Stato, 24 ore, costava mensilmente 150.000 lire, cioè circa 10 euro.

Niente elettricità vuol dire niente acqua, e quindi niente doccia, niente lavatrice, niente pulizia della casa, niente condizionatore o riscaldamento.

I libanesi, abituati a essere resilienti, ridono: “per questo ci iscriviamo in palestra, dove ci sono le docce”, dicono.

Questa rassegnazione, tutto sommato inaspettata dopo le manifestazioni della Thawra (rivoluzione) del 2019, e per un paese abituato a un tenore di vita molto alto, non si spiega se non con il principio della rana bollita – cioè quello secondo cui l’essere vivente non si ribella alla propria distruzione se questa arriva in modo graduale e costante, proprio come una rana in una pentola di acqua fredda muore senza accorgersi, se la temperatura è aumentata piano piano.

Se nel 2019 lo choc della crisi finanziaria aveva mobilitato le piazze, due anni di sofferenze graduali, il covid, l’inflazione, l’esplosione del Porto di Beirut, la mancanza del governo, il rincaro della benzina, l’assenza di acqua ed elettricità, hanno fiaccato tutte le forze.

C’è stato tutto il tempo per abituarsi gradualmente e perdere la speranza: non è strano che i libanesi siano ancora quieti nonostante le condizioni di vita insostenibili.

Invece, è strano che il mondo se ne accorga solo adesso, a fronte di fatti banali e ormai risalenti.

Se c’è una ragione dietro le cose – come spesso c’è – questo interesse improvviso probabilmente è dovuto allo scontro geopolitico che si gioca in queste settimane, e proprio con il pretesto del problema energetico.

Questa dovrebbe essere la notizia – non il black out o la povertà, cose ormai vecchie – come sottolineano i quotidiani nazionali deridendo quelli stranieri.

Cosa sta succedendo?

Gli Usa, grande protettori del vicino Israele, stanno mettendo non poco impegno per contenere l’espansione di influenza dell’Iran, che di Israele vorrebbe vedere la distruzione e che agisce in Libano attraverso il gruppo Hezbollah.

Il conflitto è diventato palese quest’estate, quando l’Iran ha messo a segno un colpo diplomatico importante: ha annunciato, ad un paese in ginocchio, che avrebbe inviato del petrolio forzando l’embargo statunitense, per farlo distribuire alla popolazione.

L’annuncio ha tenuto i libanesi col fiato sospeso: il carburante sarebbe arrivato davvero? Il Libano sarebbe stato oggetto di sanzioni americane?

La promessa sembrava tanto teorica quanto quella americana di risolvere la crisi attraverso l’asse egitto-giordano, ancora oggi totalmente in fieri.

Invece il petrolio iraniano è arrivato, è stato distribuito, ha permesso alla popolazione di tirare un po’ il fiato e, soprattutto, ha creato un consenso significativo intorno ad Hezbollah, di cui pure il braccio armato è considerato organizzazione terroristica, e causa di molti rovesci per il Libano – non da ultimo, secondo una pista di indagine, una corresponsabilità nell’esplosione del porto di Beirut.

Il petrolio iraniano ha avuto un’altra conseguenza significativa, e cioè la formazione di un governo in funzione stabilizzatrice anti-Hezbollah dopo quasi due anni di vacanza: l’esecutivo Mikati si è formato il 10 settembre, immediatamente prima che arrivasse il carburante iraniano, e la fiducia è stata votata il 21 settembre, lo stesso giorno in cui il petrolio veniva distribuito.

Non ci sono state invece sanzioni per la violazione dell’embargo.

Dopo alcune deboli proteste da parte sunnita e cristiana (gli hezbollah sono sciiti), sul fatto è sceso un imbarazzato silenzio, e la questione è stata arrangiata considerando il carburante come importato dai privati attraverso un paese terzo, la Siria, e quindi non di diretta responsabilità del governo libanese – a onor del vero in quel momento senza guida.

ll petrolio iraniano ha permesso al paese stremato qualche settimana di respiro, ma la dialettica delle due potenze è ripresa non appena il problema energetico è riemerso, e cioè proprio in questi giorni.

Ieri il Ministro degli Esteri Iraniano Hossein Abdollahian, in visita a Beirut, ha dichiarato ufficialmente che il suo paese continuerà ad aiutare il Libano, sia attraverso nuovi carichi di carburante donati tanto ad Hezbollah quanto allo stesso Stato, sia proponendo il finanziamento di due nuove centrali elettriche.

Lo scopo della dichiarazione è chiaro: reclamare pubblicamente l’intervento iraniano, e ricordare agli elettori che una “mano amica” sarà costantemente – e concretamente – presente, in vista delle elezioni del maggio 2022.

Abdollahian non ha fatto in tempo a prendere l’aereo, che è stata annunciata la visita del vice segretario di Stato americano Victoria Nuland.

Questa visita ha scatenato un’ansia diffusa, pur se molti commentatori sottolineano che era “prevista da tempo”, e quindi non va letta come risposta immediata e diretta a quella del ministro iraniano.

I libanesi sanno fin troppo bene cosa significano le partite geopolitiche giocate sulla loro pelle, e tremano all’escalation di un confronto che potrebbe giocarsi sulle fazioni religiose, sempre in precario equilibrio, scatenando un’altra guerra civile.

Questo è il vero cuore del problema, non il black-out o l’incombente povertà; e questo è quello che i libanesi leggono dietro la carità pelosa di paesi stranieri – tutti – e le proteste sulla “perdita di sovranità” avanzate dal presidente M. Aoun (cristiano), del capo del governo Mikati (sunnita) e del patriarca maronita Bechara Rai o più in generale, in generale,  dal fronte anti-sciita.

Perciò si scrive “petrolio” ma si legge “guerra”, e l’unica cosa da sperare è che sia una paranoia scatenata, come spesso avviene, proprio dal buio.