L’antropologo Claude Lévi Strauss detestò la Baia de Guanabara, gli ricordava una bocca sdentata, fauci mute de una bestia morente i cui rilievi immani del Pão de Açucar e del Corcovado erano tronconi mozzi di denti putridi. L’antropologo Claude Lévi Strauss detestò la Baía de Guanabara, il simbolo di Rio de Janeiro e di tutto il Brasile. Negli gli anni trenta del ventesimo secolo, il paesaggio privo della siluetta dei grattacieli su ambo i lati, lasciava all’occhio dell’europeo la capacità di vedere montagne, foreste, immaginare Amazzonia e Mato Grosso dove di lì a poco si sarebbe recato per studiare e scrivere su tropici tristi e popoli senza organizzazione sociale: solamente gente, come si può leggere nel suo famoso libro. Se la Baia è una bocca senza denti, il ponte è come un freno di cavallo che la attraversa. Tra Rio e Niteroi, tredici chilometri di piloni di cemento alti settanta metri e centocinquantamila macchine al giorno.

Chissà cosa avrebbe detto l’illustre antropologo se lo avesse visto, o meglio, se lo avesse attraversato all’ora di punta quando il traffico si blocca e si rimane sospesi nel bel mezzo di una bocca senza denti di dimensioni colossali. Nella selva dell’interno, a migliaia di chilometri dalla baia senza denti, ebbe tempo di convivere con i Nhambiquara, una etnia isolata il cui modo di vita, secondo lo studioso, era realmente miserabile: senza possedere dimora alcuna, fuorché le foglie di banano o di palma adibite a capanna, senza coltivare la terra né allevare bestiame, senza saper contare oltre il numero tre, dedicavano la giornata semplicemente alla bellezza dell’ozio, a dipingersi reciprocamente il corpo con disegni e arabeschi meravigliosi, a ridere e sollazzarsi in abbracci e baci: i portoni dell’inferno, il paradiso terrestre.

Claude Lévi Strauss, tornò a Parigi, inventò lo strutturalismo e nella Baia de Guanabara non tornò mai più. Sul ponte Rio-Niteroi, vanto dell’ingegneria brasiliana, tredici chilometri, settanta metri e centocinquantamila macchine, oggi ci atterra un elicottero. La persona che scende in tutta fretta salta come un bambino grasso, salta di gioia come un bambino grasso felice quando vince la Juve con un rigore rubato: non importa se il rigore è rubato, quello che davvero importa è vincere. Salta, esultante, pugno chiuso, corre e abbraccia i presenti.

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L’azione si è conclusa alla meglio. Non c’è più pericolo, possiamo riaprire il ponte alle centocinquatamila macchine che strombazzano dalla fretta, le Tv hanno già fatto vedere e rivedere l’azione prodigiosa dello sniper che da cento metri piazza una pallottola in testa al sequestratore. Gli ostaggi possono scendere sani e salvi. Braccia tese, salti di allegria, pancia a dondolare, pugni chiusi, abbracci e urla, pacche sulle spalle, bar sport. Si chiama Wilson Witzel, è il governatore dello stato di Rio de Janeiro. Colui che ha dato carta bianca e licenza di uccidere alla sua polizia, i cui elicotteri sorvolano le favelas sparando sulla gente e lasciando decine, centinaia di cadaveri: 881 dall’inizio dell’anno. A Rio de Janeiro è in corso una politica di sterminio delle popolazioni vulnerabili. Oggi i tiratori scelti hanno abbattuto un pazzo che con un’arma giocattolo aveva sequestrato un autobus sul ponte. Ieri un fiume di sangue scendeva i vicoli della favela.

La foresta in Amazzonia arde in fiamme e il mondo giustamente si commuove e arriva a pensare perfino di avere il sacrosanto diritto di intervenire per appropriarsi di un territorio che non gli appartiene: è un bene comune e voi siete incapaci di gestirlo, dice. Come se quello stesso mondo decidesse di togliere all’Italia la gestione delle sue città d’arte, Venezia e Firenze, perché lasciate all’incuria e al saccheggio di orde turisti ingordi e transatlantici alle deriva. Ma tutto questo non importa. La maggioranza della nostra gente non lo sa, oggi è contenta come Wilson Witzel perché ha visto in diretta l’esatto momento in cui la testa del sequestratore si spezzava in due con cervella e pezzi di cranio a volare sul selciato, pance di governatori a dondolare, pugni chiusi e braccia tese come un gol, mentre la foresta dei Nhambiquara brucia da due mesi senza che Bolsonaro abbia mosso un dito, anzi, brucia proprio perché Bolsonaro ha detto che era possibile bruciarla, nessuno può fermare lo sviluppo del paese, quella terra serve da pascolo per mucche, per piantarci soja e per scovarci metalli preziosi. Che bruci. Che bruci, e che si spari alla testa del sequestratore e di chiunque, da lontano, sembri un criminale, che si esulti su ogni albero abbattuto, su ogni corpo dilacerato, sul sangue della nostra gente, su quel povero Tamandua tetradactyla, un formichiere senza più occhi, senza più il pelo, senza più niente, muto in piedi davanti alla coscienza maledetta del mondo infame.

In principio era il Verbo, la parola che definisce, stabilisce, autorizza. Mesi di attacchi convulsivi contro tutto quello che, secondo il presidente, rappresenta il marxismo culturale che ha come scopo trasformare il paese in una “dittatura comunista in stile cubano”. Mesi di terrore in cui sono stati estinti gli organi di controllo e protezione ambientale, in cui sono state firmate quasi seicento permessi di disboscamento, in cui gli scienziati dell’istituro di studi ambientali sono stati sommariamente licenziati. Qualche giorni fa il cielo di São Paulo si è letteralmente riempito di buio: erano le nuvole del fumo degli incendi che dell’amazzonia arrivavano fino a qui. Notte in pieno giorno. Fumo e non nuvole, il fumo che ha percorso migliaia di chilometri, un corridoio di aria sporca, un corridoio di morte.

Vista di Sao Paulo alle 3 del pomeriggio

La reazione del mondo, di Macron, dells Merkel… minacciano sanzioni economiche che ci manderebbero sul lastrico. Bolsonaro parla alla Tv a reti unificate. Dice che fará di tutto per combattere i crimini ambientali. Mente, come ha sempre mentito. La gente lo sa e si affaccia alle finestre per urlare il suo dissenso. Un grido catartico. Per aiutare il povero formichiere, ho aperto la finestra e ho gridato anch’io.