Il 6 giugno abbiamo presentato in anteprima a New York il nostro ultimo documentario, “L’inizio della fine delle armi nucleari”.  Per questo film abbiamo intervistato 14 persone, tutte esperte nei loro campi, che hanno saputo darci un’idea della storia e del processo che ha portato al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, e degli attuali sforzi per stigmatizzarle e trasformare il divieto in eliminazione.  Nell’ambito del nostro impegno a mettere queste informazioni a disposizione di tutti, pubblichiamo le versioni integrali di queste interviste, insieme alle loro trascrizioni, nella speranza che queste informazioni possano essere utili ai futuri registi, attivisti e storici che desiderino ascoltare le potenti testimonianze qui registrate.

Questa è l’intervista a Setsuko Thurlow, che aveva 13 anni il 6 agosto 1945, quando la prima bomba nucleare fu sganciata con rabbia su un’altra nazione. A differenza della stragrande maggioranza dei suoi compagni di classe, Setsuko sopravvisse grazie alla fortuna di essere stata scelta per lavorare in una base militare giapponese a un miglio circa dall’epicentro della detonazione.

Per il nostro documentario, sappiamo che a 87 anni potrebbe essere una delle ultime opportunità per catturare la preziosa testimonianza di Setsuko per le generazioni future che, si spera, non conosceranno mai l’orrore delle armi nucleari. Abbiamo trascorso più di un’ora con questa affascinante signora a casa sua a Toronto, dove ci ha raccontato della sua infanzia a Hiroshima prima della guerra, del giorno in cui la bomba è esplosa, dell’esperienza dell’università, del trasferimento negli Stati Uniti, del suo attivismo antinucleare , della campagna per il Trattato per la proibizione delle armi nucleari e del Premio Nobel per la Pace.

Trascrizione

Raccontaci della tua infanzia in Giappone

Mi chiamo Setsuko Thurlow. Sono originaria di Hiroshima, ma ho vissuto per molti anni qui a Toronto, la mia seconda casa.

Sono nata nel 1932 e ho vissuto a Hiroshima fino a quando ho finito il college e poi sono venuta negli Stati Uniti con una borsa di studio. Per i primi 15 anni della mia vita sono cresciuta in un ambiente sociale molto militarista, fascista e totalitario. Non conoscevo nessun altro modo. La vita non era così male.  Non potevamo avere tutto quello che volevamo, buon cibo, buoni dolci, cioccolato e bei vestiti. E le cose erano limitate, ma la prima parte della mia infanzia è stata abbastanza bella. Penso a un grande giardino soleggiato. Mio padre amava il giardinaggio e abbiamo assunto un giardiniere che lavorava lì la maggior parte del tempo.

Sono diventata una buona amica del giardiniere. Mi ha insegnato tutto su alberi, piante e fiori, su come raccogliere i frutti, ecc. Così i primi ricordi sono stati quelli dei tempi felici e di molte persone che venivano a casa nostra.

Mio padre era un capo famiglia alla vecchia maniera e questo implicava che molti eventi religiosi, familiari e attività si svolgessero in casa mia, sia che si trattasse di una cerimonia commemorativa per un defunto, o di un matrimonio di un cugino, e così via.

Tutto accadeva in quel luogo. Quindi ho ricordi felici di quella parte dell’infanzia. Beh, un ricordo che non posso dimenticare riguarda il momento in cui il giardiniere avvolgeva ogni bocciolo di peonia alla fine di maggio. Gli ho chiesto: “Che cosa stai facendo?”. “Aspetta fino a questo fine settimana e vedrai” mi ha risposto. Quando è tornato, ha iniziato a rimuovere tutta la carta di riso fine che aveva avvolto intorno ai germogli. Ha rimosso tutti gli involucri. E tutte le peonie del giardino all’improvviso sono fiorite e gli ospiti hanno cominciato ad arrivare.

Questo è il tipo di felicità che ricordo. Poi il Giappone dichiarò guerra, difese una causa piuttosto stupida, attaccò Pearl Harbor in quel modo e all’improvviso lo stile di vita cambiò. Per un po’, le cose andarono bene. Il Giappone affondava tante navi americane e via dicendo, ma ben presto cominciò a perdere navi, aerei e combattenti.

Così il nostro stile di vita è cambiato rapidamente. Ogni giorno alla radio venivano date le istruzioni: razionare il riso, razionare questo, razionare quello. La vita è diventata molto ristretta e triste, ma ci avevano fatto il lavaggio del cervello. Eravamo discendenti dell’imperatore, figli e figlie della dea e non avremmo mai perso la guerra. Da bambina ci ho creduto come tutti gli altri.

Il giorno in cui è esplosa la bomba

Così le cose cominciarono a cambiare, come la scuola elementare che cambiò il suo nome diventando “La Scuola del Popolo” o qualcosa del genere. Ci andavamo ogni mattina, non avevamo cappotti caldi e congelavamo.

Poi arrivò l’ordine di distruggere la nostra casa, almeno la metà di essa, perché dovevano allargare la strada per i veicoli e i treni e tutto il resto. Dovevano mandare uomini e rifornimenti in guerra. Quindi l’allargamento della strada era una delle attività più popolari.

Questo significava che la nostra casa doveva essere tagliata a metà. Ho dovuto rinunciarci, così ci siamo trasferiti da un’altra parte. Mio padre aveva un sacco di case, case in affitto e ci siamo trasferiti.

E la casa così ridotta divenne un albergo per ospitare gli uomini che venivano mandati sul campo di battaglia, reclutati in tutto il Giappone. Sono stati portati a Hiroshima, hanno trascorso l’ultima notte in Giappone e sono saliti a bordo della nave dal porto.

Quindi passavano l’ultimo giorno della loro vita in [casa mia]. Già da bambina sapevo cosa significava. Sai, lasciavano i loro figli, le loro mogli e così via. Bevevano un po’ di sake e facevano una festa. Beh, questo mi è rimasto in testa perché la mia casa ha iniziato a ospitare i giapponesi che si stavano godendo l’ultima notte della loro vita.

Comunque, nella primavera del 1945 gli attacchi aerei cominciarono a intensificarsi. Beh, anche prima  venivano solo per indagare su ciò che c’era laggiù, ma penso che fossero pronti. Ora, dopo aver conquistato Tinian, nelle Isole Marianne, nel Pacifico, che era una buona posizione, l’aereo poteva sorvolare il Giappone in un solo colpo e iniziare ad attaccare le città.

Iniziò così l’attacco indiscriminato ai civili, a cominciare da Tokyo e Osaka, Nagoya, tutte le grandi città. So che sono stati bruciati più di 100 centri urbani. Allora, ci siamo chiesti, quando sarà il nostro turno?

Hiroshima era considerata la decima città più grande dell’epoca, ma anche le città più piccole erano state bombardate. Come mai? Non stava succedendo niente. Beh, gli aerei tornavano ogni giorno, ma non sganciavano bombe. Perché no? Che cosa stava succedendo? Così si diffusero voci di ogni tipo.

Non sapevamo che gli Stati Uniti mantenevano Hiroshima intatta per uno scopo speciale, perché a quel punto il signor Truman aveva già le informazioni. A luglio avevano fatto il primo test della bomba e lui o i suoi militari avevano inviato il messaggio: non attaccare Hiroshima.

Beh, puoi facilmente indovinare. Se si vuole provare un nuovo tipo di bomba, allora si vuole attaccare una città intatta, invece che solo rocce e cenere. Lo abbiamo saputo solo molto più tardi ed eravamo molto in ansia.

Così andavamo a scuola con istruzioni speciali, con un casco speciale in caso di attacco. Dovevamo indossarlo. Avevamo sempre con noi una borsa piena di cose, medicine e cibo come i fagioli tostati o cose del genere.

Oh, che rapido cambiamento nel nostro stile di vita! E indovinate un po’? Dovevo incontrare i miei studenti alla stazione proprio quella mattina. Li ho presi e abbiamo iniziato la marcia verso il quartier generale dell’esercito, e dicevo: “Avanti marsch!” e poi siamo arrivati alla porta e abbiamo detto [qualcosa in giapponese]. Salutando a destra. Sai, devi salutare. Quindi anche le tredicenni si comportavano come dei piccoli soldati giapponesi. Dovevamo comportarci in quel modo.

Comunque, ero in terza media, seconda media. Sì, a scuola avevamo classi quasi regolari. E’ così che ho imparato l’inglese: “This is a pen. This is a pen” [Questa è una penna]. È stato divertente, ma al secondo anno, in terza media, non avevamo quasi più lezioni normali in classe. Siamo stati inviati dai contadini per aiutare l’azienda agricola o all’azienda dove imballavamo le scatole di tabacco che venivano inviate in prima linea.

In un’altra occasione, siamo andati in una fabbrica di abbigliamento militare, dove dovevamo assicurarci che i bottoni fossero nel posto giusto nelle uniformi. E poi, parecchie settimane prima del bombardamento di Hiroshima, verso aprile o maggio del 1945, sono stata selezionata per essere una delle 30 ragazze inviate al quartier generale dell’esercito per imparare a decodificare i messaggi segreti. È stato divertente, l’abbiamo imparato in fretta e il 6 agosto doveva essere il nostro primo giorno come assistenti ufficiali dell’esercito.

Quel giorno ho incontrato le altre ragazze alla stazione. Abbiamo marciato verso il vicino quartier generale e le ho portate al secondo piano dell’enorme edificio in legno che distava un miglio da Ground Zero e alle otto del mattino abbiamo iniziato un’assemblea.

Il maggiore ci stava facendo un discorso d’incoraggiamento. “Siete state ben addestrate. Questo è il giorno in cui inizierete a mostrare la vostra fedeltà, e bla bla bla, all’imperatore”. “Sissignore! Faremo tutto il possibile”.

In quel momento ho visto nella finestra il tremendo lampo. Qualcuno ha detto che era una luce più luminosa del Sole; qualcuno ha detto che decine di migliaia di soli scoppiavano insieme, ma insomma… L’ho visto e non riuscivo a capirlo e prima di avere la possibilità di capire cosa stava succedendo, sapevo che il mio corpo stava volando nell’aria.

Sapevo che stavo volando nell’aria. È l’ultima sensazione che ricordo, dopo di che ho perso conoscenza. Poi, quando ho ripreso i sensi nel silenzio e nella totale oscurità, ho capito che gli americani finalmente ci avevano attaccato. La gente di Hiroshima si chiedeva ansiosamente perché non fossimo stati attaccati come tutti gli altri, ma perfino io mi rendevo conto che questo doveva essere opera degli Stati Uniti.

Non riuscivo a muovere il mio corpo, quindi sapevo che stavo affrontando la morte, ma non mi sono fatta prendere dal panico. L’ho accettato con calma. Poi ho cominciato a sentire le voci deboli delle ragazze: “Mamma, sono qui. Aiutami. Dio, aiutami!” Quindi sapevo di non essere sola in quell’oscurità. Ero circondata. Poi, all’improvviso, una mano forte mi ha toccata da dietro. “Non arrenderti, non arrenderti! Continua a muoverti! Sto cercando di liberarti. Vedi la luce che esce da quell’apertura? Muoviti verso di essa il più velocemente possibile. Ora sto cercando di liberarti. Dai, continua a spingere, continua a scalciare”.

Mi stava tirando su il morale, allora abbiamo lottato e alla fine è riuscito a liberarmi. Ho fatto disperatamente quello che mi ha chiesto di fare. Quando sono uscita, l’edificio era in fiamme. Quando me ne sono andata, mi sono girata e ho cercato di capire quale fosse la situazione, se potevo tornare indietro ad aiutare i miei amici. Ma no, non sono riuscita a entrare. Era…..

Poi mi sono guardata intorno e ho pensato: “Strano”. Erano le 8:15 del mattino, eppure era buio, buio come al crepuscolo e poi ho cominciato a vedere nell’oscurità alcuni oggetti che si muovevano, ma erano così silenziosi, così tranquilli. Nessuno urlava, gridava, chiedeva aiuto o correva in giro. No, era una quiete spettrale. È una scena molto inquietante, che ricordo ancora oggi.  Poi quegli oggetti in movimento si sono avvicinati a me e li ho guardati. Per me era una processione di figure spettrali. Non sembravano esseri umani. I loro capelli erano appuntiti, crespi e la loro pelle e la loro carne cadevano via. Alcuni portavano in mano i globi oculari e molti facevano semplicemente i seguenti [gesti delle mani]. Pelle e carne appesi. Strisciavano lentamente verso la periferia dal centro della città.

E un soldato ha detto – dato che ero al quartier generale dell’esercito ci dovevano essere molti soldati e ufficiali, molti sono morti, ma molti sono sopravvissuti – e qualcuno ha detto: “Voi ragazze, unitevi a quella processione e scappate verso la collina vicina”. È quello che abbiamo fatto, siamo passate con attenzione al di sopra dei cadaveri sul pavimento.

E il silenzio continuava, ma sentivamo voci, voci deboli, tutti che chiedevano acqua, acqua per favore, acqua. Quando siamo arrivate ai piedi della collina, il luogo era pieno di cadaveri e persone morenti.

Beh, c’era un campo di allenamento ai piedi della collina, delle dimensioni di due campi di calcio e quando siamo arrivate lì il posto era pieno di cadaveri e di persone morenti, che continuavano a chiedere acqua. Noi tre eravamo coperte di sangue e via dicendo, ma non eravamo gravemente ferite. Volevamo aiutare, ma non avevamo un secchio, non avevamo tazze per trasportare l’acqua. Così ci siamo avvicinate, abbiamo lavato il nostro corpo, strappato le nostre camicette e le abbiamo inzuppate nell’acqua, e poi abbiamo portato i vestiti imbevuti alla bocca dei moribondi che succhiavano l’umidità. È tutto ciò che sono riusciti a ottenere prima di morire.

Immagina tre o quattromila gradi centigradi. Questo è il calore della bomba a livello del suolo, che li ha bruciati dall’interno verso l’esterno. Devono aver sofferto molto. Tutti chiedevano acqua.

Quindi solo poche persone sono riuscite ad avere un po’ di umidità. Non c’erano né medici né infermieri.

Mi sono guardata intorno e ho pensato che sicuramente dovevano esserci degli operatori sanitari, ma non ho visto nessuno di loro tra le decine di migliaia di persone che stavano morendo. Beh, tra l’80 e il 90 % degli operatori sanitari erano stati uccisi e i sopravvissuti hanno lavorato in un’area diversa da quella dove mi trovavo io.

Penso che la maggior parte della gente sia morta schiacciata dal crollo di edifici e bruciata dal fuoco, ma le persone che non sono state bruciate, come me, erano lì. Quindi sono stata esposta alle radiazioni.

Quindi nel periodo successivo… beh, forse prima di parlare delle conseguenze, lasciate che vi dica alcune cose su quello che è successo quel giorno. La maggior parte dei miei compagni di classe lavorava nel centro della città, gli studenti di seconda e terza media di tutte le scuole superiori erano stati portati lì perché la città aveva un piano speciale. Volevano distruggere tutti gli edifici ed espandere le strade per essere preparati. Questo è il tipo di lavoro che c’era per i bambini piccoli e i bambini si sono tolti la maglietta proprio al centro della detonazione. Sono stati i primi a vaporizzare, si sono semplicemente fusi.

C’erano più di 300 studenti della mia scuola. Sono viva perché ero da un’altra parte, a un miglio di distanza e dentro un edificio. Sono rimasta sepolta quando è crollato. Devo essere stata protetta, ma quelle persone non avevano protezione davanti alla bomba; 4000 gradi Celsius di calore, sono stati semplicemente carbonizzati, vaporizzati. Ma una delle ragazze è sopravvissuta ed è tornata e ci ha raccontato cosa è successo alle ragazze prima della loro morte. Hanno solo strisciato. Non riuscivano a identificarsi perché erano così annerite e gonfie, ma con la voce potevano chiamarsi. Si sono sedute in cerchio, hanno cantato inni, così ho capito, uno particolarmente bello, il mio preferito [dice il nome giapponese]. In inglese è qualcosa come “Signore mi sto avvicinando a te”. E mentre cantavano insieme, una per volta sono svenute e sono morte. Questo è quello che è successo ai miei compagni di classe. Perché una ragazza è sopravvissuta ed è tornata per raccontarci questa storia, conosco lei e l’insegnante di mia cognata, che dirigeva la supervisione di queste persone. Abbiamo cercato il suo corpo, ma non l’abbiamo mai trovato. Così due bambini piccoli sono rimasti orfani.

Quindi quelle erano le persone che avevano qualche prova tangibile di ferite, che si trattasse di pelle bruciata o di un viso gonfio, ma c’erano molte persone in città o in periferia. Sembrava stessero bene a vederli, per esempio, mio zio e mia zia. Quando abbiamo scoperto che erano sopravvissuti, eravamo felici, ma una settimana dopo hanno iniziato a sentirsi molto male. Hanno iniziato a vomitare e sono comparse macchie viola su tutto il corpo e questo era un segno sicuro che stavano per morire. In effetti, sono morti. Così in quei giorni la prima cosa che noi sopravvissuti facevamo al mattino era controllare ogni parte del corpo e fare in modo di vivere un altro giorno. È il tipo di ansia con cui abbiamo vissuto.

In seguito la gente si sentiva così letargica, anche se non c’erano prove tangibili di sofferenza. [La gente] semplicemente non aveva energia e alcune persone si lamentavano di questi sopravvissuti. Sono inutili, non lavorano, non possono lavorare. Se un agricoltore vuole assumerli, non lavorano perché non sono fisicamente in grado di farlo.

E molte persone hanno sofferto di cicatrici, una pessima cicatrice. Non erano belle da vedere. Così alcune persone sconsiderate hanno iniziato a chiamarli fantasmi e cose simili. L’alienazione sociale e la discriminazione erano reali. Quelle ragazze con quel tipo di pelle hanno perso l’opportunità di parità di trattamento per qualsiasi cosa: lavoro, matrimonio, alloggio e tutto il resto. Non è stato solo un danno fisico, ma anche sociale e psicologico. La città è scomparsa in ogni senso.

Com’è stata l’esperienza di andare al college e venire negli Stati Uniti?

Sì, è successo l’impensabile. Il Giappone non avrebbe mai pensato di perdere la guerra. L’abbiamo fatto e dovevamo sopravvivere giorno per giorno. Sopravvivere. Avevamo fame. Ho grande rispetto per le donne che erano determinate a nutrire le loro famiglie. Dove hanno trovato il cibo?

Ma comunque alcuni funzionari sopravvissuti si sono subito messi al lavoro contattando i militari, [per scoprire] se c’erano ancora del cibo e dei vestiti e cercando di distribuirli agli affamati, ma sai che per 12 anni il governo centrale, il governo nazionale non ha alzato un dito per aiutarci. Certo, posso dire che erano totalmente disorientati, perché erano loro che credevano fermamente che noi eravamo i discendenti e l’imperatore, e tutto il resto, il mito,  erano totalmente immobilizzati e non riuscivano a pensare ai poveri che soffrivano.

Non sapevano cosa fare, ma comunque questa non è una scusa. Per 12 anni! Se solo il governo avesse aiutato i sopravvissuti dando loro coperte, per esempio, dando loro consigli…… [come] per esempio non dormire sul suolo inquinato della città.

Non sono state fornite informazioni, né coperte o cibo. Così i sopravvissuti che non avevano amici o parenti fuori città dormivano su quel terreno contaminato e sono stati i primi ad andarsene.

Nel mio caso siamo stati molto fortunati e mi sento sempre male, quando penso alle persone che non hanno avuto scelta. Beh, siamo andati nei dintorni della città dove mio zio ci ha accolto, ci ha dato da mangiare, ci ha ospitato e ci ha vestito, quando lui stesso aveva perso due figlie.  Non sono mai tornate dalla città e tre ragazzi combattevano in Cina o da qualche altra parte. Era solo con la moglie e il figlio maggiore, quindi aveva molto spazio e molto cibo e ci ha accolto. Ma i sopravvissuti dovevano fuggire dalla città e più lontano andavano in Giappone, meno informazioni avevano su questo nuovo tipo di bomba. Il sistema di comunicazione era così scarso all’epoca e il sistema non funzionava più.

Ha detto: “Chi sono queste figure spettrali?” Quindi la discriminazione sociale era reale.

In seguito gli Stati Uniti hanno istituito a Hiroshima e Nagasaki una cosa chiamata ABCC, Atomic Bomb Victims Commission [Commissione per le vittime delle bombe atomiche]. La gente era così felice. Finalmente otterremo cure mediche e farmaci, ma il loro unico scopo era quello di studiare gli effetti delle radiazioni sul corpo umano, non di dare medicinali o aiuto.

Quando la gente l’ha scoperto, ti puoi immaginare. Sentivano che ci stavano usando solo come cavie, prima facendo test con noi e ora studiandoci come soggetti di ricerca medica.

Quindi gli Stati Uniti dovevano prepararsi a eventi futuri simili a questo. Era esasperante e la gente era ovviamente molto arrabbiata. Ciò avvenne sotto il generale MacArthur, che diventò il comandante supremo delle forze alleate dopo la resa del Giappone.

La persona che consideravamo un dio e un discendente di Dio semplicemente scomparve da qualche altra parte. Non era più [sulla scena]. Fu MacArthur a fare una chiara dichiarazione a noi, ai giapponesi: “Sono venuto qui per fare due cose: smilitarizzare il Giappone e democratizzarlo”.

Fantastico! Penso che molti di noi, molte persone si siano sentite sollevate dalla fine della guerra. Dopo tutto, abbiamo sofferto per 15 anni. Sono cresciuta senza sapere [nient’altro], sai, conoscendo i tempi della guerra. Allora, la democrazia. Com’è la democrazia? Come dovrebbe essere? Ed eravamo ansiosi di imparare. E abbiamo imparato che, beh, le donne possono essere trattate allo stesso modo degli uomini. Buone notizie!

Io studiavo in una scuola cristiana, una scuola privata. È stato l’inizio del mio periodo forse felice. A scuola ci dicevano: “I tempi sono cambiati. Le donne possono essere ugualmente attive nella società”, e questo è stato molto incoraggiato. Il nuovo edificio fu costruito nel centro della città, fu il primo e gli insegnanti americani cominciarono a tornare a Hiroshima. Avevo un sacco di buone idee, come l’avvio di giornali per le ragazze delle scuole superiori. Sono diventata la presidentessa del più grande club studentesco, l’abbiamo chiamato YWCA.

E anche i ragazzi dell’università di Hiroshima avevano il loro YMCA. Fino ad allora non avevamo mai lavorato con gli studenti maschi, ma per la prima volta abbiamo potuto fare attività insieme. E questa è stata un’esperienza molto rinfrescante, quindi penso che l’attivismo si stesse formando in quel momento.

Abbiamo fatto un sacco di lavoro. La leader della YWCA di Tokyo era candidata al Parlamento, credo. Abbiamo ricevuto la notizia, eravamo molto orgogliose e volevamo sostenerla. Riesci a immaginare una versione giovane di me che aiuta per le elezioni, tenendo discorsi per lei e viaggiando con loro, ecc….? Mi è piaciuto molto. Era un momento felice, ma da un’altra prospettiva la mia vita in quel momento era molto seria, avendo vissuto quel caos totale e l’improvvisa scomparsa dell’ambiente a cui si è abituati.

Cominci a chiederti di che cosa si tratta. Com’è successo? A scuola si parla dell’amore di Dio, del fatto che i cristiani dovrebbero amarsi a vicenda, ma è stato un paese cristiano, gli Stati Uniti, a fare una cosa del genere. La mia mente era piena di domande e le ho prese sul serio. Non stavo solo redigendo placidamente il giornale degli studenti. Sai, mi ci è voluto molto tempo. Andavo a scuola la mattina presto, prima che arrivassero tutti e c’era una sala di preghiera speciale dove potevamo avere un dialogo personale con l’insegnante, così ho fatto domande e gli insegnanti sono stati molto ricettivi. Conoscevano la lotta che stavamo affrontando emotivamente, spiritualmente, psicologicamente e io riconosco davvero il merito di quegli insegnanti impegnati. Dopo tutto, ho passato 10 anni dalle medie, al liceo, al college, 10 anni in quell’ambiente con insegnanti premurosi e sensibili in grado di darti forza e loro hanno ascoltato la nostra lotta.

Eravamo completamente persi. E…..dopo circa 4 anni di dibattito con me stessa, con mentori e con amici, questo è quello che volevo fare e mi sono unita maggiormente alla Chiesa cristiana.

Penso che l’attivismo della Chiesa cristiana, l’enfasi sul servire gli altri sia stato molto importante per me, non solo per noi stessi, ma anche per lavorare insieme nella comunità.

Per esempio, all’epoca ero al liceo, ho letto la relazione annuale del Consiglio mondiale delle chiese e mi sono imbattuta in una definizione. Diceva: “La pace non è solo l’assenza di guerra, ma la lotta per garantire la giustizia per tutti”, qualcosa del genere.

In quei giorni non usavamo mai le parole “giustizia sociale”. Ora le usiamo, ma allora no. Poi si diceva anche di dare e provvedere a tutti, che era importante non separare i ricchi o i poveri, i più istruiti e gli ignoranti, perché anche in Giappone, a quei tempi, c’era una specie di sistema del tipo “Io vengo da una famiglia di samurai al di sopra dei plebei”, quel tipo di cose. Qui [nella chiesa], parlavamo di tutte le persone, comunisti o persone che…..

Beh, non ero sicura di cosa fosse il Consiglio mondiale delle chiese, ma ero interessata a saperne di più sul cristianesimo. Ogni volta che potevo, andavo in biblioteca a leggere le loro pubblicazioni e ho pensato: “Ehi, questa è una grande idea! Sì, la pace non è solo l’assenza di guerra”. No. È facile da capire, ma per tutte le persone, vuol dire senza discriminazioni, per tutte le persone. Uguaglianza, wow, e giustizia sociale! Che cosa significa? Che cosa comporta? Uguaglianza e, sai, diritti umani. Non sapevamo cosa fossero i diritti umani. Questo tipo di incoraggiamento mi ha sempre fatto riflettere e ho sempre detto: “Che cosa significa questo?” Ero piena di domande e sono felice di questo. Ho chiesto e ottenuto molto e ho deciso: “Beh, è così che vivrò”.

Poco prima del bombardamento, la città aveva deciso che tutti i bambini delle scuole elementari, dalla quinta elementare in poi, dovevano essere evacuati perché stavamo anticipando l’attacco. Quindi quei cinquemila bambini sono stati trasferiti fuori città.

Poi la guerra è finita e sono tornati, ma la città non esisteva più. Non c’erano case. Non c’erano genitori. Cinquemila bambini senza l’aiuto del governo centrale. Come potevano sopravvivere? Cominciarono a correre sulle ceneri tra le macerie. Sul mercato nero, a imparare a guadagnare qualche yen. A fare i borseggiatori. Quelle piccole attività criminali. Beh, il sacerdote della mia chiesa era una di quelle persone che cercavano di aiutare quei bambini, raccogliendo fondi e creando orfanotrofi qua e là, e c’erano anche molte famiglie i cui genitori e bambini non sono mai tornati dopo la guerra. La donna doveva nutrire i bambini. La forza di una donna è incredibile.

Ma non avevano un posto dove vivere, quindi non solo gli orfanotrofi, ma anche le case delle donne e dovevano essere soddisfatti quasi tutti i bisogni umani fondamentali e le persone convinte della loro responsabilità si occupavano di quello. Il sacerdote della mia chiesa era uno di loro.

Venne criticato da molte persone. Come ministro della Chiesa, il suo compito era quello di studiare e preparare un sermone per la prossima domenica, cose del genere, anche tra la congregazione.

Ero così orgogliosa. Diceva “Non vale la pena parlare di fede cristiana senza azione”. Ha sempre sottolineato l’amore e l’azione. Quindi stavo vedendo come lavoravano gli adulti. Il modo in cui hanno lavorato ha influenzato i bambini più piccoli rispetto al modo di rispondere alla cosiddetta situazione di crisi.

Non devi parlare molto, devi solo agire, poi guardiamo e sappiamo cosa è giusto, ed è così che voglio vivere. Così, quando mi sono diplomata, sapevo già in quale campo volevo lavorare. Volevo fare l’assistente sociale. Ho parlato con la presidentessa, una donna laureata alla Columbia University e lei ha detto: “Sai, Setsuko, ora i tempi sono cambiati. Le donne possono fare cose importanti. Vai a imparare qualcosa sul lavoro di gruppo, sulla leadership di gruppo. Dobbiamo aiutare le donne di questa città. Vai a studiare questo e quello e torna a guidare le donne di Hiroshima”.

“Cosa? Per essere un assistente sociale devi andare all’università?” Con buona volontà, chiunque può farlo.

“Sì, chiunque, ma ci sono nuovi modi di pensare. Puoi studiare teoria e pratica e così via. Puoi essere più efficace”.

Così, con questo tipo di discussione, ho avuto l’opportunità di ottenere la borsa di studio per venire negli Stati Uniti e studiare. È stato per questo, sì.

Ma devo dirti che è stato nel 1954 che mi sono diplomata, e quello è stato un anno molto importante per noi. Gli americani avevano testato le bombe all’idrogeno, ma credo che il 1° marzo 1954 abbiano testato la più grande bomba all’idrogeno nell’Atollo di Bikini nelle Isole Marshall e questo ha scatenato una reazione furiosa, perché c’erano molte barche da pesca in giro. Gli americani dicevano di aver inviato un avvertimento, ma ce n’erano molti e uno di loro era giapponese e un pescatore è morto. Tutti i membri dell’equipaggio erano coperti [di radiazioni] e così tutto il Giappone si è svegliato.

[Prima solo Hiroshima e Nagasaki] ma ora Bikini, guarda come stanno distruggendo l’ambiente e le persone mostrano gli stessi tipi di sintomi della nostra gente di Hiroshima e Nagasaki.

L’America è imperdonabile! E in quel momento tutto il Giappone si è reso conto della realtà. Vedete, il sistema di comunicazione non era così buono all’epoca e MacArthur regnava e tutti erano un po’ [gesti servili]. C’era un bel po’ di oppressione, quindi la gente non era così libera, nemmeno la stampa era libera di scriverlo.

Ma agli Stati Uniti non importava niente. Fecero semplicemente esplodere [una bomba]. Quello fu l’inizio della più grande azione sociale della storia del Giappone e quella fu l’estate in cui presi una nave dal Giappone. Ho passato due settimane nel Pacifico. Non è un Oceano Pacifico, è un oceano crudele. Sono arrivata negli Stati Uniti, sono venuta a studiare in Virginia e la gente dei media sapeva cosa stava succedendo nel Pacifico, quanto erano sconvolti i giapponesi, ed ecco che arriva una sopravvissuta di Hiroshima. Hanno trovato la nave e mi hanno subito chiesto come mi sentivo al riguardo. Allora, cos’altro potevo fare? Ho detto che i test dovevano cessare, che la distruzione dell’ambiente doveva cessare, che i feriti dovevano essere curati e che le persone in Giappone continuavano a soffrire e a morire di leucemia e di tutti i tipi di cancro. Ho detto loro cose negative; il giorno dopo ho iniziato a ricevere lettere d’odio, lettere d’odio anonime.

Quella fu l’introduzione alla vita americana. Mi dicevano: “Chi ha iniziato Pearl Harbor? Vattene a casa!” Ma io ero appena arrivata, non potevo tornare. Posso vivere qui in questo paese? Come posso sopravvivere qui? Devo fingere, come se non sapessi nulla e non avessi esperienza? Devo imbavagliarmi? È stata un’esperienza traumatica. Non potevo andare a scuola, cioè, non potevo andare in classe. Non riuscivo a concentrarmi, così sono rimasta da sola a casa dell’insegnante per un’intera settimana. E ho pregato e sofferto, ho pensato ed è stato il momento più solitario, ma a ripensarci sento che è stato un momento importante, che mi ha dato l’opportunità di fare veramente l’esame di coscienza. Qual è il valore della mia vita? Qual è lo scopo?

Beh, il mio lavoro è quello di condividere la mia esperienza a Hiroshima e cosa significa vivere nell’era nucleare, l’orrore che causa all’umanità. Non dobbiamo permettere che ciò accada di nuovo ad altri esseri umani. È il mio messaggio e non riesco a smettere di parlarne.  Continuerò a parlarne. Questa è stata la decisione. Riflettendo, come potevo farlo? Sai, da sola. Sono stata in grado di farlo. Sono grata e ho iniziato a leggere disperatamente gli articoli della gente. E l’unica persona i cui scritti mi hanno influenzato molto è stato il professor Richard Falk.

Era specialista di diritto internazionale all’Università di Princeton e ho iniziato a leggere. Oh! Ero così felice, perché mi sentivo così sola e gli americani non vedevano le cose come me, ma ecco un uomo che sosteneva la mia idea. E così quando l’ho incontrato, quando gli ho scritto, come mi ha salvato! Mi ha dato davvero il potere. Ci scriviamo ancora? Sì, ora vive sulla costa occidentale.

Così ho incontrato centinaia di quei leader illuminati, che mi hanno fatto pensare e mi hanno aiutato.

Hai conosciuto Martin Luther King?

Non sono stata così fortunata. No. L’ho visto in tv, sì.  E sono stata alla sua scuola.

Quindi sei diventata un attivista anti-nucleare nel 1954?

Formalmente sì, credo di aver iniziato ad agire allora, anche se il bisogno della nostra dedizione e dell’impegno che sentivo era molto precedente, quando ero a Hiroshima, perché era diventata una città di pace. Tutti erano per la pace ed è stato costruito il Cenotafio e tutto il resto. Abbiamo preso tutti quell’impegno, abbiamo fatto un giuramento. Dopo tutto, tutti i nostri cari e amici, compagni di classe….. non posso convivere con quel ricordo. Faremo in modo che non siate morti invano.

Sì, è quello che provo sempre. Quando ho tenuto il mio ultimo discorso alle Nazioni Unite quel giorno, quando hanno votato a favore del trattato.

Come ti sei fatta coinvolgere da ICAN?

Per molti anni ho fatto la cosiddetta educazione al disarmo, parlando ai giovani o alla società civile come il Rotary Club e il Women’s Club, tra gli altri.

Poi a poco a poco ho iniziato a ricevere inviti a conferenze internazionali, conferenze delle Nazioni Unite, ecc. e penso che sia stato nel 2007, quando il gruppo di medici di Ottawa mi ha invitato. “Vieni, ti prego. Stiamo celebrando la riunione inaugurale del gruppo. Lo chiameremo ICAN”. Pensavo che sarebbe stato un altro grande gruppo, ma non ci stavo pensando, sai.

In ogni caso, c’erano molti politici e molti medici, molti studenti di medicina delle università vicine, eravamo nella sede del Parlamento e io ero uno degli oratori. Così ho raccontato loro della mia esperienza personale, e poi dell’aspetto umanitario…

Dopo tutto, sono le persone a soffrire e questo è stato dimenticato nel nostro dibattito. Parlano sempre di strategie e deterrenza e tutto il resto.  Così ho sottolineato il rischio per l’umanità e ho detto che il lavoro  dei medici è quello di servire l’umanità. Ho parlato, ma all’epoca non avrei mai pensato che quel piccolo gruppo sarebbe diventato un grande gruppo globale. Non ho mai avuto questa [idea], ma quello fu comunque l’inizio.

E poi sono andata a Nayarit in India (sic) e ho incontrato i membri di ICAN e sono rimasta sorpresa. Gliel’ho detto quando mi hanno chiesto un discorso spontaneo. Ho detto loro che avevo lavorato molti, molti anni come sopravvissuta condividendo la mia esperienza, le mie aspirazioni e i miei desideri e sogni e, tra le altre cose, nella maggior parte degli incontri [c’erano] un sacco di persone con i capelli bianchi, di mezz’età.

Ma qui, wow! C’erano un sacco di giovani ed erano menti così appassionate, energiche, creative e ben informate, studiose e così impegnate. Ero così eccitata e penso di aver condiviso la mia gioia. È stata una sorpresa per me, una sorpresa molto piacevole, e dopo di ciò ho fatto diversi viaggi in Germania e Inghilterra e in altre parti d’Europa, ma sono venuti i giovani. Sono andata alla scuola di medicina, penso che fosse a Berlino. Alcuni non ne sapevano nulla, ma altri hanno iniziato a studiare ed erano così ansiosi di imparare. È stata un’esperienza di enorme potenza, rendersi conto che finalmente alcune persone nel mondo non evitano il tema. Vogliono imparare, scoprire in quale mondo vivono. Quale sarebbe la loro responsabilità?  Questo mi ha dato speranza, davvero.

Quindi mi è piaciuto lavorare con quelle persone.

A cosa pensavi quando il trattato è stato approvato?

In quel momento, la mia mente non funzionava normalmente. Era quasi intorpidita. Ho sentito bene? Ho visto bene? Ho dovuto convincermi. Ci è voluto del tempo, poi mi sono tolta gli occhiali, ho chiuso gli occhi e le lacrime hanno cominciato a scendere.

Alla fine mi sono resa conto di cosa significava e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella di condividere questa grande notizia con tutti i miei cari che avrebbero voluto sentirla. L’ho fatto nelle mie preghiere. Quindi ero dietro alla gente, la mia psiche non funzionava nel modo normale, ma mi sono ripresa. Un momento indimenticabile.

Che cosa è successo quando è stato annunciato il Premio Nobel per la Pace?

Proprio qui, questo posto era pieno di giornalisti e fotografi giapponesi. E c’era quel telefono là. Se fosse successo qualcosa, quel telefono avrebbe squillato. Così volevano che mi sedessi là, in modo da farmi una foto quando ricevevo [la chiamata].

Ho detto: “No. Non succederà”. Ma dobbiamo essere pronti, non si sa mai. Ecco cos’è successo. Verso le 6 del mattino, credo, ho capito che nessuno aveva chiamato.

No, quel telefono non squillava, ma altre persone [sui loro telefoni potevano vedere e dire]: “Ehi. L’ha preso ICAN”. E qualcuno mi ha fatto una foto pazzesca e io ho detto: “Wow”. I giornalisti giapponesi hanno fatto quella foto, sì.

Sei andata a Oslo per la cerimonia. Com’è stata l’esperienza?

Il Comitato Direttivo Internazionale di ICAN ha tenuto una conferenza e [si è deciso che] Beatrice, il direttore esecutivo, sarebbe andata, ma a quanto pare tutti hanno deciso che ci sarei stata anch’io a condividere l’intervento.

Oh, non ho avuto modo di discutere con loro del perché. Posso solo indovinare, ma nessuno si è fermato comunque, tutti hanno pensato che fosse opportuno invitarmi a condividere quel momento glorioso.

Quindi sì, ci sono andata. Ora mi stai chiedendo della mia esperienza a Oslo?

Beh, certo, ero tesa, fisicamente non stavo molto bene, ma non lo sapevo. Solo quando sono tornata, il dottore ha detto: “Ehi, dobbiamo operare subito.  Quindi ho subito due interventi chirurgici, due ricoveri qui nella zona. Non mi meraviglio di non essermi sentita ottimista quando ero lì, ma, comunque, non so.

Ti hanno trattato come una regina! Come una star!

Sì, il vicepresidente del Comitato per il Nobel è venuto a prendermi all’aeroporto. È stato incredibile. Mi sono seduta con la regina e il re a cena, e certo, avrei voluto essere più sveglia e osservare tutto. Non ho percepito circa il 75% di quello che stava succedendo.

Ora che abbiamo il Trattato, quali sono le tue speranze e i tuoi sogni per i prossimi passi? Che cosa risulterà da questo processo del Trattato di proibizione delle armi nucleari?

Beh, vorrei che questo Trattato entrasse in vigore. Si dice così??

Abbiamo molti altri paesi da convincere. Questo è l’obiettivo immediato. Penso che stiamo tutti lavorando. Il mese prossimo mi recherò in Giappone e parlerò molto con i cittadini e con alcuni politici, come il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri, tra gli altri.

Sono disposta a incontrare chiunque e voglio convincerli, se sono disposti ad ascoltare e si stanno organizzando molte interviste con la stampa. Sarebbe una buona occasione per dire quello che penso.

Ritengo davvero che il Giappone dovrebbe assumere la leadership, cosa che non ha fatto solo a causa delle sue relazioni con gli Stati Uniti e penso che sia una cosa molto vile. Inoltre, quello che dicono e quello che fanno sono due cose diverse.

Beh, politicamente devono dire a livello nazionale: “Siamo l’unica nazione bombardata con armi nucleari, quindi abbiamo la responsabilità morale di assumere una leadership verso il disarmo”. È quello che dicono per ragioni politiche, ma quando vengono alla Casa Bianca o al Pentagono, tutto quello che fanno è inchinarsi e dire” Sì signore, quanto in alto signore?”.

Una sottomissione totale e le persone non si fidano di quel tipo di rapporto, quando si dicono due cose diverse dai due angoli della bocca, credo.

Se hai un’idea geniale, dimmelo. Devo solo parlare come un essere umano che l’ha vissuto, ma penso che dopo tutto stiamo parlando di esseri umani ed è su questo che dobbiamo concentrarci. E non fanno niente in questo senso. No.

Cosa diresti ai giovani che potrebbero pensare che eliminare le armi nucleari sia troppo difficile?

Domanderei: cosa vuoi dire? Perché pensi che sia troppo difficile? Chi l’ha detto? Dove hai sentito questo genere di cose? Sì. È una supposizione quella che stai facendo.

Beh, l’uomo le ha fatte, dunque dovremmo essere in grado di sbarazzarci delle armi nucleari. Abbiamo quel tipo di potere scientifico.

Commissione per le vittime della bomba atomica

Penso che vi sia una cosa in particolare di cui vi ho parlato, la Commissione delle vittime della bomba atomica, che ha studiato solo gli effetti delle radiazioni sul corpo umano, ma non per fornire cure o farmaci o altro. Sono stata chiara.

Sì, è stata una cosa barbara

Sì, lo so ed è successo un anno dopo l’esperienza.

Un’altra cosa. Penso di avervi detto che il generale MacArthur aveva dichiarato di voler realizzare due cose: demilitarizzazione e democratizzazione. È fantastico. Suona molto bene. E ha fatto grandi cose, come dare il voto alle donne. È fantastico.  Aiutare i sindacati a essere attivi, un sistema finanziario, un sistema educativo.  Sono state fatte alcune riforme, è fantastico! Ma per quanto riguarda Hiroshima e Nagasaki, ha fatto il contrario della democratizzazione.

Questo è quello che ha fatto. Non voleva che il mondo conoscesse la sofferenza umana causata da quelle bombe, così ha introdotto la censura. La stampa non era libera di scrivere sulla sofferenza umana. Potevano scrivere dei trionfi delle prove scientifiche, ma, sapete, lo hanno fatto sviluppando potenti bombe e quello andava bene.  Si può parlare molte volte, ma della sofferenza umana non si doveva scriverne. E qualche giornale ne ha scritto, ed è stato chiuso. Il suo lavoro era finito: non puoi scrivere degli Hibakusha, della gente che soffre, perché l’America voleva evitare la reazione del resto del mondo e dei suoi stessi contribuenti.

E non solo, hanno iniziato a confiscare cose personali tra i sopravvissuti; alcune persone avevano tenuto diari, o foto, fotografie, diapositive, ogni sorta di cose, sai.

Ai giapponesi piacciono le poesie, lunghe e corte. Soffrivano per aver perso tutto, il cuore era pieno e i pensieri dovevano uscire. Tutto quello che potevano fare era scrivere un diario e comporre poesie, questo era il loro modo di guarire.

Ma quelle cose erano troppo pericolose. Sono state tutte confiscate, 32.000 in totale e rispedite negli Stati Uniti.

Questi sono due esempi concreti che vi fornisco. L’intero sviluppo dell’era nucleare, non solo il sistema delle armi, ma anche la preparazione psicologica e sociologica.

Quindi, se non devo viaggiare e parlare, voglio sedermi, leggere e scrivere. In realtà, è quello che voglio fare d’ora in poi perché ho problemi di mobilità. Mi piace scrivere. C’è ancora molto da condividere con il mondo.

Traduzione dall’inglese di Silvia Nocera