A Nahr el-Bared abbiamo perso la nostra casa, in Palestina la nostra terra

Nahr el-Bared è un luogo magico, un luogo con cui ho da subito sentito un forte legame, già prima di metterci piede, quando cercavo di ottenere il permesso per entrare e non capivo perché fosse così complicato. Alla fine ce l’ho fatta ma una volta entrata ho continuato a chiedermi il perché. Nahr el-Bared è circondato dall’esercito libanese e si può entrare solo passando per i cinque check-point che lo circondano e se non si è palestinesi o libanesi si ha bisogno di un permesso. Ragioni di sicurezza dicono, una frase che si sente pronunciare troppo spesso quando si tratta di palestinesi. Nonostante ciò è il campo profughi più pacifico che io abbia visitato in Libano.

La guerra del 2007, un duro conflitto tra le Forze Libanesi e il gruppo Fatah Al-Islam, ha distrutto il 95% del campo e, secondo i dati UNRWA, circa 27.000 rifugiati palestinesi di Nahr el-Bared e delle aree adiacenti sono rimasti senza casa. Durante i tre mesi di assedio, il campo è stato colpito con artiglieria pesante e bombardamenti aerei e quasi tutti gli edifici e le infrastrutture nel campo sono state distrutte o danneggiate irreparabilmente, forzando i residenti a spostarsi nel vicino campo di Beddawi. Sette anni dopo gran parte del campo è ancora in rovina.

Tuttavia le persone cercano di ricostruire le proprie vite e vanno avanti affrontando la vita con il sorriso. A Nahr el-Bared ho incontrato persone stupende che mi hanno fatto sentire parte della loro comunità e mi hanno insegnato il significato della frase “non perdere il sorriso”. A Nahr el-Bared ho incontrato anche Lebdewah e mi sono subito innamorata di lei. È una donna fantastica, saggia, forte, divertente ed intelligente e allo stesso tempo ironica e dolce. Il pomeriggio ama sedersi su uno stuoino in veranda, bere caffè e chiacchierare con le figlie e i vicini. Una sera a casa sua ho avuto una splendida conversazione con lei e le sue figlie, mi ha raccontato della vita che ha vissuto, una vita durissima, e della forza con la quale ha affrontato tutto ciò che le è capitato. Mi ha dato molta energia e speranza per il futuro.

Lebdewah vive a Nahr el-Bared con le sue due figlie in una casa accanto al mare. Mi hanno accolta in casa loro come fossi una di famiglia, trattandomi con la dolcezza e l’amore protettivo delle mamme. Durante una conversazione sull’ISIS mi dissero: “Se succede qualcosa ti proteggeremo noi, vieni a casa nostra e sarai al sicuro, li picchieremo quelli dell’ISIS se vengono qui”. Ogni volta che le andavo a trovare ridevamo tanto, Lebdewah rimaneva in silenzio per la maggiorparte del tempo, parlava solo quando aveva qualcosa di importante e saggio da dire, mentre le sue figlie amavano parlare e chiacchierare. È una famiglia bellissima la loro. Mi ricordo benissimo la sera che Lebdewah mi ha raccontato la sua storia perché ho capito quanto sono importanti persone come lei al mondo. È saggia, ma anche molto emotiva e riusciva a stento a trattenere le lacrime quando parlava della Palestina.

Mentre sua figlia ci serviva il caffè arabo (khawa), Lebdewah ci raccontava la storia della sua vita, di come è finita dalla Palestina al nord del Libano (le sue figlie, scherzando, ancora la rimproverano per questo). Ci sedemmo tutti sullo suoino, formando un cerchio intorno a lei per ascoltare attentamente la sua storia.

Questa è la sua storia:

«Mi chiamo Lebdewah e sono nata a Zib, un villaggio tra Nahara e Akka, nel nord della Palestina. La vita lì era bellissima, avevamo la nostra terra, le nostre pecore e lavoravamo la terra e avevamo una vita semplice e bella. Sono arrivata in Libano dopo la Nakba, nel 1948. Avevo 15 anni ed ero incinta a quel tempo. Alcuni giorni prima della Nakba avevamo sentito parlare del massacro del villaggio di Deir Yassin dove case e strade erano state bombardate e la gente massacrata – incluse donne incinte. Il nostro villaggio era ancora sicuro ma dopo un po’ cominciarono a bombardare anche noi. Bombardavano sulle nostre teste e cominciammo a fuggire come pazzi in da ogni parte senza una direzione ben precisa, non sapevamo dove andare.

Poi abbiamo iniziato a camminare verso il confine con il Libano e ci abbiamo messo tre giorni per arrivare a Tiro, la nostra prima tappa.  Intanto gli aeroplani volavano sulle nostre teste tutto il tempo e noi ci nascondevamo sotto gli alberi o tra i cespugli. Erano aereoplani israeliani perché gli inglesi se ne erano già andati a quel tempo. Ci dormivamo pure sotto gli alberi di notte. Una volta al confine io ero così spaventata e la mia gravidanza era troppo avanzata, così ho partorito il mio bambino al confine, sotto gli alberi. Quando siamo arrivati a Tiro sapevamo ch non saremmo più tornari in Palestina. Le Nazioni Unite cominciarono a darci cibo e tende in cui dormire e dopo nove mesi a Tiro fummo spostati a Bekkaa, vicino al confine con la Siria. Poi ci spostammo finalmente al campo profughi di Nahr el-Bared dove abbiamo dormito nelle tende per cinque anni.

Intorno a Nahr el-Bared non c’era niente a quel tempo, né case, né strade, era un paesaggio di montagna, senza luce. Di notte avevamo paura dei lupi perché scendevano verso il campo. D’estate dormivamo con le tende aperte e una notte mentre dormivo con mio figlio un lupo venne vicino alla nostra tenda e ci spaventò a morte. Un cane lo allontanò ma dopo quella notte iniziammo a chiudere la tenda da dentro. Anche quando pioveva era difficile e non c’era elettricità, dovevamo accendere il fuoco per cucinare e fare luce. Inoltre, per prendere la legna dovevamo fare lunghe camminate sulle montagne. Abbiamo vissuto cinque anni in questa situazione. Giorno dopo giorno le cose sono cambiate e la vita è migliorata. L’UNRWA ci dava zucchero e farina, ci hanno aiutato molto. Ora la situazione è migliorata molto, ma ne abbiamo passate tante anche a Nahr el-Bared. Come la guerra del 2007».

Una delle figlie sospira e dice «Oh mio Dio, la guerra! Io sono stata la prima a uscire dal campo durante la guerra! Ero talmente spaventata che non riuscivo a respirare». E l’altra figlia risponde saggiamente: «La guerra è stata terribile, ma a Nahr el-Bared abbiamo perso la nostra casa, in Palestina la nostra terra». Poi Lebdewah riprende a raccontarci la guerra del 2007. «Quando ho lasciato Nahr el-Bared a causa della guerra pensavo che fosse la mia seconda Nakba, mi ha ricordato quando sono stata costretta a lasciare la mia casa in Palestina. Questa volta ho portato con me cibo, pane, perché ero sicura che non sarei più tornata neanche a Nahr el-Bared. Avrei preferito non andarmene dal campo, ma sono stata costretta. Adesso, sette anni dopo, sto ancora aspettando che la mia casa venga ricostruita, e vivo qui, in casa di mio figlio, con le mie due figlie. Siamo state fortunate ad avere un membro della famiglia che ci aiutasse.

Il Libano non ci ha mai trattato bene, non mi sono mai sentita a casa qui, ci chiamano profughi, non palestinesi, siamo come fantasmi con le nostre storie. Ci hanno costretti a venire qui ma al governo libanese non è mai importato di noi, mentre da palestinesi abbiamo cercato più volte di trovare accordi con il governo in questi anni. Ci è voluto tanto perché le cose andassero meglio, mese dopo mese. Il governo si è comportato meglio della gente comunque. È un miracolo che siamo ancora vivi dopo tutto questo».

Erano le 11 di sera quando me ne andai da casa di Lebdewah e dopo aver parlato con lei ero così confusa che ho dimenticato di chiederle di scattarci una foto insieme. Avevo un insieme di di sentimenti che non ho saputo descrivere per lungo tempo: tristezza, rabbia, disperazione ma anche felicità e speranza. Il senso della vita e il futuro erano altre due cose su cui mi sono interrogata molto dopo quell’incontro. Mi sentivo come se fossi nel posto giusto al momento giusto quella sera da lei e non ho bisogno di una foto per ricordare Lebdewah e quei sentimenti.  I palestinesi esistono, davvero. Nonostante tutti gli sforzi che Israele e i governi occidentali fanno per cancellare le loro vite, la loro cultura, la loro memoria, nonostante tutti gli sforzi che il Libano ha fatto per rendere la loro vita un inferno e per farli sentire come in una prigione, perché Nahr el-Bared è una prigione. I ricordi di Lebdewah vivranno per sempre oltre le barriere e l’assedio. I palestinesi non smetteranno mai di lottare e avranno sempre chi li sosterrà. Io ho scelto da che parte stare e non mi tiro indietro