Vi è una “urgenza di riconciliazione” nei Balcani e, in particolare, in Kosovo? È questo il tema principale della conferenza internazionale che si svolgerà il prossimo 7 novembre, a Casalecchio di Reno (Bologna), negli spazi della Casa per la Pace “La Filanda”. Al tema della riconciliazione fanno spesso riferimento funzionari e analisti internazionali; d’altra parte, al tema della riconciliazione finiscono spesso per essere associati significati eterogenei o contenuti allotri che rischiano di stravolgerne il significato o alterarne la portata.

Pressenza ha spesso ospitato riflessioni sul tema della riconciliazione. In uno di questi, ad esempio, si pone l’accento sulla dimensione personale, morale, della vendetta, ricordando che «la motivazione alla base della vendetta non è semplicemente il danneggiamento dell’altro, ma è estrarre dall’altro quell’essenza vitale che ho perso quando sono stato danneggiato; l’occhio per occhio, oggi, non vuole l’occhio dell’altro, ma rivuole dall’altro la dignità umana che crede gli sia stata sottratta. […] Il soggetto della mia vendetta, il colpevole, una volta subita la punizione, vorrà a sua volta essere risarcito per ciò che ha subito, avviando così una spirale di violenza distruttiva. L’essere umano non è solo il suo passato, è anche proiezione al futuro, pertanto la vendetta scatta non solo per ciò che mi è accaduto, ma anche per il danno che l’altro potrebbe causarmi se ne avesse la possibilità: è la vendetta per la mia paura del futuro». Si tratta, peraltro, di una delle scaturigini del ben noto meccanismo della spirale della violenza che, a propria volta, può esprimersi nelle forme della escalazione, o in quelle della catena della violenza, come lucidamente ha messo in evidenza Pat Patfoort a partire dall’analisi dei meccanismi di relazione basati sullo schema Maggiore-minore (il modello Mm).

In un altro contributo al tema, relativamente meno recente, veniva posto l’accento soprattutto sulla dimensione relazionale e sociale della vendetta, nei contesti in cui oppressi e oppressori, «vittime e carnefici, non solo co-abitano lo stesso spazio di relazione, ma, per di più, non ne sono né corpi estranei né corpi separabili. Bianchi e Neri abitano il Sudafrica, Serbi e Albanesi (e numerose altre minoranze) abitano il Kosovo, Cattolici e Luterani abitano la Germania (le distinzioni, come si vede, non sono semplicemente etniche, come certe banalizzazioni tendono a far ritenere, ma piuttosto linguistiche, religiose, culturali, dunque etno-politiche nel senso più ampio del termine). È pressoché impossibile immaginare un Sudafrica “bianco” (anche se il potere segregazionista era bianco); o un Kosovo Albanese (anche se il potere attualmente costituito è sostanzialmente mono-etnico) […]. Il dolore patito non può estinguere ipso facto l’ipotesi della convivenza».

È in questo spaccato che è possibile individuare alcune condizioni per la riconciliazione, noto essendo il presupposto per cui la riconciliazione non è un momento dato, una realizzazione puntuale, bensì un percorso storico e sociale, che richiede, al tempo stesso, la disponibilità dei soggetti coinvolti a prendervi parte, l’impegno delle leadership politiche e sociali a intraprenderlo, la possibilità per l’opzione della trasformazione di esservi innestata. Com’è noto, la pace si fa tra (ex) nemici, e, per ricordare una massima di Nelson Mandela, «se vuoi fare la pace col nemico, devi lavorare col nemico. Così diventerà tuo alleato». Di conseguenza, non solo la pace è sempre possibile ma anche le alternative sono sempre immaginabili; seguendo Johan Galtung, ad esempio, «se una chiave importante per il conflitto è la creatività, quale sarà la chiave adatta per la pace? Non facciamo chiacchiere, per favore, solo una parola! La parola è uguaglianza. […] La pace è basata sulla reciprocità, che a sua volta si basa sull’uguaglianza, diritti uguali e uguale dignità. […] Riprendiamo dalla elementare teoria della pace una definizione più precisa sulla reciprocità: qualunque cosa tu voglia per te stesso, dovresti anche volerlo offrire all’altra parte, se essa lo desidera», una declinazione della regola aurea.

È questo un punto fondamentale anche nell’odierna declinazione della problematica della riconciliazione nei Balcani e, in particolare, in Kosovo. La parole chiave è “uguaglianza”, quindi rifiuto di qualunque ipotesi di dominio e di qualsivoglia logica da «due pesi due misure» o, come più rigorosamente si dice nella diplomazia internazionale, «doppio standard», logica ampiamente utilizzata dalle cancellerie occidentali in tutti i casi di conflitto degli ultimi trent’anni, dal Kosovo, al Donbass al caso recentissimo del genocidio in corso a Gaza. Come giustamente ha ricordato Nik Bozic su Times of Israel: «Immaginate se gli arabi della Galilea e del Negev iniziassero una guerra di secessione e la NATO decidesse di intervenire bombardando Israele con il pretesto di aiutare una presunta minoranza oppressa, fino a quando le autorità israeliane non si ritirassero da queste aree, per poi istituire un protettorato internazionale e qualche anno dopo consentire di unirsi a un cosiddetto Stato di Palestina o ottenere l’indipendenza. Ebbene, questo è esattamente ciò che è accaduto alla Serbia».

Ecco perché l’urgenza di riconciliazione non può che essere basata su pace e giustizia e, in particolare, sul diritto e la giustizia internazionale: rispetto della Carta delle Nazioni Unite; diritti eguali e indivisibili; risoluzione pacifica dei conflitti; non ingerenza nelle questioni interne ai singoli Paesi; rispetto della sovranità, dell’integrità e della indipendenza politica delle nazioni; autodeterminazione dei popoli e rispetto delle risoluzioni vincolanti (obbligatorie) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non ultime, quanto al Kosovo, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 del 1999, e, quanto a Israele, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2334 del 2016.