Memoria, Vendetta e Riconciliazione sono parole complesse, che racchiudono campi di significato molto ampi, pur appartenendo a sfere semantiche distinte, molto lontane quelle cui fanno riferimento i termini della “memoria” e della “vendetta”, ben più vicine, invece, come facilmente si comprende, quelle dei termini della “vendetta” e della “riconciliazione”. Nella giornata di studio e di riflessione, in programma domenica prossima, 25 Ottobre, presso il Parco di Studio e di Riflessione di Attigliano, abbiamo provato a metterli insieme, tenendo legate queste sfere. Perché?

Per quanto paradossale possa sembrare, il “termine medio” o, se si preferisce, l’elemento di legame tra i tre non è la “memoria”, quanto piuttosto la “riconciliazione”, che pure si sarebbe istintivamente portati a spostare alla fine, quale esito possibile o, almeno, obiettivo auspicabile dell’itinerario. Quando parliamo di una rottura dolorosa che interviene all’interno di un determinato contesto sociale, di una determinata società o anche, in termini fondamentali, di un determinato ed individuabile assetto sociale, al “dolore”, spesso associato alla violenza, resta inevitabilmente associato un “trauma”, un qualcosa che si è rotto. Non si tratta solo di un fenomeno morale (spirituale), né unicamente di un’affezione della sfera intima (interiore). Pensiamo alle forme del conflitto armato: la guerra; o alle innumerevoli varianti della contrapposizione violenta: il conflitto violento, la discriminazione e la segregazione, l’oppressione e lo sfruttamento; e con esse agli innumerevoli – purtroppo – casi della storia in cui queste contrapposizioni sono state affrontate e solo in parte o niente affatto risolte con mezzi abituali, in forza di una prassi del tutto abitudinaria.

L’esercizio, eventualmente violento, della contrapposizione consente di mappare l’organizzazione e l’articolazione stessa della violenza: permette cioè di distinguere tra “oppressore” e “oppresso”, di individuare mezzi e fini perseguiti dai diversi attori in campo (e, ovviamente, gli attori, sovente molteplici e mutevoli, in campo), di mettere a fuoco bisogni, interessi, valori, risorse ed obiettivi delle parti. Nella filigrana di tale mappatura del conflitto e dei suoi elementi, si estrinseca, tuttavia, l’esercizio della violenza che, nei soggetti, individuali e collettivi, persone e comunità, che la subiscono, determina, al tempo stesso, la consapevolezza del dolore e la percezione del trauma: il dolore della violenza subita, il trauma della rottura intercorsa. Non che una dimensione traumatica non abiti anche il “carnefice”: la rottura esercitata nel contesto collettivo non può non avere un qualche effetto anche presso l’oppressore, nella misura in cui si trovi ad abitare il medesimo spazio sociale; è tuttavia il dolore subito dalla vittima ad imporre una domanda – come superare il dolore?

Quando l’oppresso e l’oppressore co-abitano lo stesso spazio di relazione non è possibile porsi questa domanda senza pensare alle sue implicazioni sull’oppressore stesso: ciò, evidentemente, non significa che la vittima tenda naturalmente a porsi il problema del carnefice di fronte al proprio dolore; significa piuttosto che il contesto sociale deve porsi tale problema, se intende salvaguardare sé stesso, la funzionalità delle proprie relazioni, l’efficacia delle proprie condotte. Non esiste una unica modalità possibile di affrontare il dilemma: la denazificazione è una delle modalità possibili, che si rivela efficace quando si può (e si deve) bandire una ideologia o una prassi dal novero delle ideologie e delle prassi ammissibili, con lo scopo di salvaguardare una funzionalità democratica.

Che fare quando non è possibile espungere la questione? Vittime e carnefici, in questo caso, non solo co-abitano lo stesso spazio di relazione, ma, per di più, non ne sono né corpi estranei né corpi separabili. Bianchi e Neri abitano il Sudafrica, Serbi e Albanesi (e numerose altre minoranze) abitano il Kosovo, Cattolici e Luterani abitano la Germania (le distinzioni, come si vede, non sono semplicemente etniche, come certe banalizzazioni tendono a far ritenere, ma piuttosto linguistiche, religiose, culturali, dunque etno-politiche nel senso più ampio del termine). È pressoché impossibile immaginare un Sudafrica “bianco” (anche se il potere segregazionista era bianco); o un Kosovo Albanese (anche se il potere attualmente costituito è sostanzialmente mono-etnico); o una Germania Luterana (anche se la cultura dominante in quel Paese è profondamente attraversata dai connotati tipici del luteranesimo). Il dolore patito non può estinguere ipso facto l’ipotesi della convivenza.

È necessario, allora, andare “oltre la vendetta”: non (solo) per una questione di “perdono”, bensì, prima di tutto, per una questione di “giustizia”. Il che configura, almeno, tre dimensioni: da una parte, non è possibile cancellare il male commesso, la violenza esercitata, l’oppressione subita; e la giustizia – più che il perdono – fa riconoscere l’ingiustizia commessa, nomina il perpetratore della ingiustizia, offre nuovamente, alla vittima, identità, soggettivazione, legittimità; da un’altra parte ancora, non è possibile identificare il colpevole con la colpa da lui commessa; e la giustizia – più che il perdono – consente, una volta riconosciute le ragioni, le motivazioni, i bisogni, gli interessi e gli obiettivi delle parti, di offrire al colpevole una “seconda chance”, una nuova opportunità o, in termini più complessi, l’occasione del suo re-inserimento sociale e la possibilità che non resti ucciso dentro una soggettività minore identificata nella colpa commessa; da un’altra parte ancora, infine, la giustizia – più che il perdono – consente di ribaltare i termini della questione, di alterare, cioè, il rapporto di forza che aveva consentito, all’oppressore, l’esercizio della violenza, e all’oppresso, il dolore della sottomissione. La giustizia riconosciuta può consentire il superamento della vendetta.

L’esempio offerto dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per il superamento dell’apartheid in Sudafrica, la cessazione della segregazione etnica e la riparazione dei torti conseguenti è un esempio luminoso di giustizia “riabilitativa” piuttosto che di giustizia “retributiva” in cui il punto non è tanto (o niente affatto) discriminare tra il (chi ha) torto e la (chi ha) ragione, punire il colpevole e risarcire la vittima, sanzionare il reo perché sia plausibilmente (auspicabilmente) ridotta la possibilità della recidiva; il punto è invece quello di distinguere il colpevole dalla colpa, proteggere l’umanità del colpevole e offrire al colpevole una possibilità affinché non solo la colpa sia riconosciuta e confinata, ma, in particolare, il colpevole sia riabilitato e reinserito. Quella rottura esige anche di salvaguardare l’umanità del soggetto e, al tempo stesso, l’umanità dei rapporti sociali.

Tale modello di giustizia, nel caso sudafricano e altri casi consimili, ha consentito alla popolazione di acquisire consapevolezza condivisa delle ingiustizie patite per evitare che potessero e possano ripetersi ancora in futuro; ha dato una possibilità ai carnefici di assumere consapevolezza delle colpe commesse, della violenza compiuta e del dolore provocato, chiedendo perdono (consentendo giustizia) non solo di fronte alla vittima ma di fronte alla intera comunità; e ha offerto uno spazio ed un tempo, dedicato e libero, alle vittime per condividere, a livello pubblico e sociale, il dolore, la violenza, l’ingiustizia subita facendo del loro il caso esemplare di giustizia da esigere, non solo per sé, ma per tutti e tutte. Ciò ha permesso, in Sudafrica e in casi analoghi, da un lato, di ricomporre il tessuto sociale, dall’altro, di ripristinare le ragioni della fiducia sociale e della convivenza civica: la possibilità, cioè, per il popolo sudafricano di “prendere in mano il proprio futuro” e ridarsi la chance di riconcepire i termini della convivenza e della coesistenza pacifica. Ciò e valso, come detto, in Sudafrica e in casi analoghi: quelli in cui ciascuna delle parti abita un medesimo spazio pubblico, che riconosce come proprio e che risulterebbe del tutto sfigurato senza una tale “compresenza”.

Ecco allora svelato l’arcano della tesi: solo la coniugazione della esigenza di conseguire e garantire giustizia e di proteggere e salvaguardare l’umanità di ciascuno e ciascuna, la dignità umana, la personalità umana nella sua funzione sociale, consente di superare positivamente il torto subito e, per quanto possa non riuscire a lenire in alcun modo un dolore inestinguibile, può tuttavia alimentare la speranza in un superamento, un cambiamento, una trasformazione in positivo. La “riconciliazione” diventa allora quel termine medio che andavamo cercando, tra un passato di dolore da trascendere e un futuro di libertà da conseguire. Se la vendetta è il desiderio di replicare a quel torto in maniera simmetrica, restituendo dolore a dolore, la giustizia, al di là del perdono, insieme con la verità, scardinando il meccanismo della menzogna, può aiutare a traguardare una prospettiva di liberazione, un orizzonte di “pace con giustizia”. In tale prospettiva si compie l’esigenza della convivenza e il superamento del passato, ni pardon ni oubli, in una rinnovata “compresenza”. Una tale compresenza non sarebbe possibile senza fondare (i presupposti di) una nuova memoria.

Ecco perché la memoria, specialmente se la si concepisce in termini sociali, nella forma della memoria collettiva, guarda molto più al futuro che al passato. In essa, nelle forme attraverso cui si esplica, nelle iterazioni attraverso cui si tramanda e nei luoghi nei quali si condensa, si conserva senza dubbio il valore di eventi passati, ma soprattutto si proietta nel futuro l’immagine che la comunità intende darsi. È attraverso la memoria che si supera la vendetta e si trascende il perdono, si stabiliscono le coordinate sociali, infine si progetta la riconciliazione e si definisce la convivenza.