Iniziava il 24 marzo 1999, esattamente 23 anni fa, l’aggressione della NATO alla allora Repubblica Federale di Jugoslavia, uno degli eventi spartiacque del nostro tempo, talmente rilevante e denso di conseguenze ed implicazioni da essere diventato un vero e proprio oggetto di studio e di analisi da parte di osservatori e analisti e da essere portato spesso, più o meno appropriatamente, anche a paragone con l’attuale crisi in Ucraina.

Con quella guerra, infatti, questioni e pretese, radicali e destinate ad avere grande impatto nei tempi successivi, venivano portate al centro dello scenario internazionale, delle analisi strategiche e dell’opinione pubblica. Intanto, la più evidente di tutte, grave e impattante al punto tale da essere spesso, paradossalmente, rimossa o dimenticata: con l’aggressione alla Serbia e i bombardamenti su Belgrado, gli Stati Uniti e gli alleati della NATO riportavano, dopo le guerre di disgregazione della Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta, pesantemente la guerra nel cuore dell’Europa. È sorprendente ascoltare, oggi, dichiarazioni che alludono alla responsabilità della campagna militare russa in Ucraina di avere riportato la guerra “nel cuore dell’Europa”.

Ovviamente deprecabile e deplorevole, come anche la recente risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha attestato, l’iniziativa russa infatti non ha stabilito, in questo senso, il precedente. Dopo le crisi e i disordini in diversi Paesi dell’Europa centro-orientale che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, hanno accompagnato il processo di dissoluzione del Patto di Varsavia e la fine dell’esperienza storica del socialismo reale di ispirazione sovietica in Europa, e dopo le già ricordate guerre in Jugoslavia, sono stati gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO, tra cui l’Italia, a riportare la guerra “nel cuore dell’Europa”.

In un articolo assai significativo, scritto il 22 marzo 2019, in occasione del ventennale dell’aggressione e dei bombardamenti alla Jugoslavia, Luciana Castellina, in maniera lucida come di consueto, sottolineava, tra le altre cose, il fatto che «per la prima volta è tornata la guerra in Europa come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, così rovesciando i principi sui quali si era faticosamente costruita la pace mondiale dopo il 1945. Sessant’anni non sono bastati a mettere definitivamente in mora l’idea e la pratica della guerra come valore e iniziativa legittima – e praticabile, quando non c’è deterrenza». Inoltre, «è la prima guerra che si è combattuta sul suolo europeo dalla fine del conflitto mondiale; è un’aggressione di europei a un altro Stato sovrano europeo, del sud-est dell’Europa. Smentisce così la mitologia, che si ripete ogni giorno, secondo cui la creazione dell’Unione europea avrebbe per sempre allontanato lo spettro degli scontri fratricidi fra le nazioni del vecchio continente». Sul posizionamento dell’Europa nello scenario del mondo e sul ruolo dell’Unione europea di fronte alle grandi crisi internazionali, peraltro, le contraddizioni sono talmente gravi e profonde da ripetersi in diversi contesti. Pensiamo ad esempio al ruolo svolto dall’Unione europea di fronte alla vicenda epocale delle migrazioni: come ha scritto Dario Stefano dell’Aquila in un rapporto pubblicato dalla Fondazione Rosa Luxemburg, ad esempio, «la politica europea continua a basarsi sui pilastri fondamentali della protezione militare delle frontiere e della politica dei rimpatri, mantenendo intatto il sistema dei centri di detenzione amministrativa per migranti». Sono di facile reperibilità i reportage che mostrano i muri e le barriere che si stanno erigendo (o sono già stati ampiamente realizzati) lungo i confini “esterni” della fortezza Europa UE: tra Ungheria e Serbia; tra Bulgaria e Turchia e tra Grecia e Turchia; tra Grecia e N. Macedonia, solo per andare a memoria; cui aggiungere i casi “storici” di Ceuta e Melilla tra Spagna e Marocco e le azioni dell’agenzia Frontex.

In quella occasione, con l’aggressione della NATO alla Repubblica Federale di Jugoslavia del 1999, non solo si definiva nella maniera più nitida una modalità di esercizio dell’azione militare che sarebbe stata poi rivista e aggiornata anche per altri contesti e situazioni, ma si delineava nella maniera più compiuta il paradigma assurdo della cosiddetta “guerra umanitaria”: un’assurdità logica, un ossimoro feroce, in base al quale, in nome di una finalità umanitaria strumentalmente agita, ci si dotava della legittimità presunta per fare guerra, anche violando in maniera sistematica norme e principi elementari di diritto e di giustizia internazionale, dalla non-ingerenza nelle questioni interne dei singoli Paesi, al rispetto per la sovranità e l’indipendenza politica delle nazioni, alla tutela dell’integrità territoriale. Fu, con puntualità e precisione, Pietro Ingrao a definire quella aggressione, giustamente, come una “guerra celeste”: «Dopo l’11 settembre 2001, George Bush jr. ha parlato di guerra permanente. Ricompaiono la guerra giusta e persino la guerra santa. Nel Kosovo ha trionfato l’ossimoro della guerra umanitaria. Cancellata l’antica repulsione per l’uccidere, la guerra può risultare perfino feconda, un modo per realizzare un diritto, una pienezza di umanità. Sono state scavalcate le Costituzioni del dopoguerra, le Carte dei diritti, i principi fondanti dell’ordine internazionale. […] Sugli schermi abbiamo visto scie luminose, le pirotecniche immagini della guerra celeste. Alimentano l’illusione, e l’inganno, d’una purificazione della guerra. […] Dicono che la guerra celeste è velocità e distacco dalla materialità confusa della Terra».

Altro che “purificazione”: distrutti o danneggiati 25.000 unità abitative, 470 km di strade e 600 km di binari, 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 scuole materne, 69 scuole, 176 monumenti culturali, 44 ponti, 38 completamente distrutti; 2.300 attacchi aerei su 995 strutture in tutto il Paese; 420.000 missili sganciati e, sempre per restare in tema di intervento “umanitario”, 37.000 bombe a grappolo e inoltre utilizzo di munizioni, vietate da tutte le convenzioni, a uranio impoverito. Migliaia le vittime. La guerra è orrore e, in guerra, citando i classici, la prima vittima è la verità. Agire contro la guerra e, prima ancora, prevenire la guerra e operare per disattivare i presupposti della guerra, è un compito cruciale per chi sinceramente vuole impegnarsi per la pace.