Lo scenario di guerra in Ucraina, che ha fatto evocare perfino la prospettiva di una guerra per procura di lunga durata, portata avanti dalla NATO in chiave anti-russa, con l’obiettivo di fare impantanare la Russia tra Donetsk e Kiev, ha portato autorità politiche e osservatori internazionali a richiamare alcuni precedenti storici.

Un riferimento alla guerra del Kosovo è stato menzionato nel discorso di Putin del 24 febbraio, quando ha ricordato che «senza alcuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno condotto una sanguinosa operazione militare contro Belgrado, utilizzando aerei e missili nel cuore dell’Europa. Diverse settimane di bombardamenti continui sulle città, sulle infrastrutture che sostengono la vita». Un passaggio in tal senso è stato riportato dagli organi di stampa quando, illustrando alcuni contenuti dell’incontro del presidente russo con il cancelliere tedesco, è stato riferito che gli ucraini stanno compiendo «un genocidio» delle minoranze russe, la NATO non può allargarsi fin qui. Da altre parti, si ribadisce il principio di autodeterminazione dei popoli o si riporta che, come violazione fu l’intervento della NATO contro la Serbia con la motivazione (vera o presunta) della protezione della popolazione albanese del Kosovo, così violazione costituisce oggi l’intervento della Russia in Ucraina che, tra le motivazioni ha anche la protezione dei civili russofoni in Donbass.

A ben vedere, l’analogia regge solo a una lettura superficiale dei due scenari. Intanto, i contesti sociali, politici e istituzionali sono molto diversi al punto da suggerire, già solo per questo, a una lettura meno approssimativa, di non cedere alla tentazione di facili e fuorvianti paragoni.

Alla vigilia dell’aggressione della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro), il Kosovo era una provincia della Serbia, abitata prevalentemente da albanesi, con una serie di altre comunità etniche non maggioritarie, tra le quali la più consistente era (ed è) quella dei serbi: dunque una provincia multietnica, con una forte maggioranza albanese, in uno stato, quello serbo, pur esso con diverse componenti, ma in cui l’elemento serbo costituisce quello ampiamente maggioritario. Un contesto multietnico, che già aveva uno status di autonomia, ridotto sin dalla fine degli anni Ottanta e compromesso dalla recrudescenza del conflitto serbo-albanese della seconda metà degli anni Novanta, nel quadro territoriale serbo e nel contesto della sovranità della Jugoslavia dell’epoca.

L’aggressione della NATO del 1999, in violazione del diritto internazionale come da più parti ribadito, celebrata come «intervento umanitario» per proteggere la popolazione albanese kosovara, ha portato alla separazione di fatto del Kosovo, sebbene la sua indipendenza non sia riconosciuta dalla comunità internazionale e la risoluzione 1244 (1999), approvata alla fine della guerra e tuttora in vigore, riconosca il Kosovo nel quadro dell’integrità territoriale della Serbia. Per quanto riguarda, invece, il Donbass, le due province ucraine di Donetsk e Lugansk sono abitate da popolazioni russofone, legate per tradizioni storiche e rapporti economici alla Russia; la loro autonomia è formalmente prevista negli Accordi di Minsk del 2014, firmati non solo da rappresentanti di Russia e Ucraina, ma anche delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, e dall’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa); il riconoscimento delle due repubbliche autoproclamate da parte delle autorità russe è avvenuto appena lo scorso febbraio, giusto alla vigilia dell’inaugurazione della campagna militare russa in Ucraina, intrapresa anche con la motivazione (vera o presunta) della difesa delle popolazioni di lingua russa delle due regioni.

Al di là dei sopra richiamati rapporti economici (e politici) e delle note tradizioni storiche (e culturali), esiste anche un legame di carattere formale: come ha ricordato la stampa internazionale, infatti, «sono oltre 720 mila i passaporti russi emessi nelle province separatiste di Donetsk e Lugansk dall’aprile 2019… Questi documenti sono stati rilasciati ai residenti con una procedura accelerata, ridotta ad un paio di mesi, e sono stati ottenuti da circa il 18% della popolazione del Donbass». Inoltre, non secondari sono i legami sociali e, non di rado, familiari; sempre tra le testimonianze, infatti, «“I parenti (in Russia) ci dicono che Putin non ci abbandonerà e tutto andrà bene”, ha dichiarato una pensionata del luogo. Molti vedono come un’opportunità i benefici collegati all’ottenimento del documento: viaggi in Russia, ad esempio, ma anche l’accesso all’assistenza sanitaria gratuita».

Il tutto in uno scenario regionale nel quale, a fronte di un’ostilità politico-istituzionale tra Russia e Ucraina ormai polarizzata e sfociata in conflitto armato, i legami storici e culturali tra i due popoli, russo e ucraino, sono, per quanto nulla affatto lineari, di lunga durata. Il richiamo al passato ancestrale, ai legami storici, alle mitologie nazionali, d’altra parte, rappresenta sempre un terreno instabile e scivoloso, dopo secoli di scambi e conflitti, interazioni e divergenze tra questi popoli, tali da rendere difficili, se non impossibili, così nette e radicali «identificazioni nazionali».

Peraltro, l’obiettivo strategico dell’iniziativa militare russa è un altro, sempre stando alle dichiarazioni ufficiali, vale a dire la «smilitarizzazione» e la «denazificazione» dell’Ucraina, e ha quindi a che vedere molto più con gli effetti del golpe di Euromaidan del 2014 e con la prospettata adesione del Paese alla NATO (sancita addirittura nella Costituzione ucraina dal 2019), che non con ambizioni territoriali o (vere o presunte) finalità umanitarie. Se grave è dunque la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, altra via non v’è per la risoluzione del conflitto se non di carattere politico, riducendo l’escalation, bloccando l’invio di armi e attrezzature militari, fermando l’espansionismo della NATO, a monte dell’odierna situazione di guerra, e prendendo seriamente in considerazione bisogni e interessi legittimi di tutte le parti, per inquadrare una soluzione politica, pacifica, di mutuo beneficio, nel quadro di una diversa architettura di sicurezza (una Helsinki 2.0) per il continente europeo.