Vi presentiamo qui la settima parte dello studio « Spunti per la nonviolenza » realizzato da Philippe Moal, in 12 capitoli. Alla fine dell’articolo trovate i link alle puntate precedenti.

I capitoli 6, 7 e 8 sono intitolati “Disconnessione, fuga e iper-connessione”. Il presente capitolo tratta in particolare il tema della fuga dalla violenza.

Il neurobiologo Herni Laborit ha dimostrato, 35 anni fa, come la fuga – che fa in modo di disconnetterci da un problema – spesso è la soluzione che adottiamo di fronte a ciò che va al di là di noi. Per Laborit la fuga non è una vigliaccheria, ma una risposta a qualcosa di proibito, impossibile o pericoloso. Egli faceva riferimento al marinaio che sfugge alla tempesta non per paura, ma per istinto di sopravvivenza. Potremmo aggiungere che oggi vi è la tendenza a fuggire di fronte a ciò che va troppo veloce e a ciò che è diventato troppo complesso nella società, perché non sappiamo come affrontarlo.

Ma dal momento che il mondo degli uomini mi costringe a osservare le sue leggi, se il mio desiderio si infrange contro il mondo proibito, quando le mie mani e le mie gambe si trovano imprigionate nei ferri implacabili dei pregiudizi e delle culture, allora io tremo, gemo e piango. Spazio, ti ho perso e ritorno in me stesso. Mi chiudo in cima alla mia torre dove, con la testa fra le nuvole, faccio arte, scienza e follia[1].

Per nascondere l’insostenibile, per scappare dal dolore e dalla sofferenza del mondo attuale, insomma per occuparci soltanto di quello che ci riguarda, siamo incanalati verso delle fughe che tendono a uniformarsi a livello planetario: il consumismo, i grandi eventi culturali e sportivi, i videogiochi e giochi in rete, o le serie tv, che proprio perché sono iper-violenti ci possono far credere al confronto che il mondo reale in cui viviamo non sia così violento… (e forse è proprio questo l’obiettivo). Queste fughe ci permettono di evadere e diventano delle vere e proprie dipendenze, allo stesso modo di quelle legate all’alcool o alle anfetamine.

Sartre definisce l’angoscia come il sentimento da cui l’uomo viene colto quando scopre la sua libertà e si rende conto di essere il solo e unico responsabile delle sue decisioni e delle sue azioni. (…) È per scappare dall’angoscia che è alla base della libertà, per evitare la responsabilità delle proprie scelte, che gli uomini ricorrono a certe forme di auto-inganno come i comportamenti di fuga e di giustificazione, o all’ipocrisia in malafede, in cui la coscienza sceglie di mentire a se stessa, mistificando le sue proprie motivazioni e mascherando e idealizzando i propri scopi[2].

Tuttavia, nonostante questi diversivi, niente può compensare l’aumento dei problemi economici, le difficoltà sanitarie e le condizioni di vita che diventano sempre più precarie per un numero crescente di persone.

Quanto ai dimenticati che vivono in condizioni di vita allarmanti, loro non contano più, sono ai margini, sono di troppo per la società; stanno nella stessa barca di quelli che vivono in zone dove c’è la guerra, la carestia, o qualunque altra situazione grave: per loro non esiste alcuna fuga possibile, non esistono palliativi, conta solo la sopravvivenza.

Durante una conversazione[3] avvenuta nel 1975, Silo descriveva come la fuga dalla coscienza sia impossibile perché la struttura intenzionale atto-oggetto è presente nella coscienza, qualunque cosa succeda, a meno che non ci si autodistrugga.

Presento qui una sintesi, in maniera lapidaria, di alcuni punti della sua analisi: “Nello stato di coscienza in fuga, non ci può essere consapevolezza di sé, si cerca di fuggire attraverso una maggiore stimolazione dei sensi. Poiché la fuga dalla realtà è l’unica vera preoccupazione, tutto diventa immaginario e succede tutto solo nella testa, non si farà niente di concreto per cambiare la situazione opprimente, perché la priorità è di scapparne. Nello stato di coscienza in fuga, diventa tutto illusorio e si traduce in azioni rituali per dare un senso a quello che si fa. Poiché non si può separare la coscienza dal corpo, quest’ultimo potrà somatizzare. La disconnessione da se stessi e dal mondo elimina qualunque possibilità di comunicazione e non esiste più intersoggettività né autocritica. L’unica via d’uscita diventa pressoché magica; in politica per esempio, qualsiasi candidato carismatico diventa il salvatore che permetterà di non aver più bisogno di fuggire, e che risponderà alle aspettative di tutti…”. Una crudele illusione!

L’unica soluzione per uscire dallo stato di coscienza in fuga è il ritorno a se stessi. Ritrovando il nostro centro e riconnettendoci a noi stessi, torniamo all’essenziale. Se si era fuori di sé, si tratta dunque di ritornare all’interno di sé, di rendersi conto di se stessi, di riconoscersi.

Allo stesso modo in cui fuggiamo dalla povertà, dalla malattia e dalla solitudine, allo stesso modo in cui rifuggiamo queste fonti di sofferenza, la fuga dalla vita e la fuga dalla morte sono insite nel mondo d’oggi, i cui valori sono sottomessi all’individualismo, al nichilismo e all’immediatezza, e portano inevitabilmente a un non-senso esistenziale.

Finché non mi rendo conto che sono vivo e finché non mi rendo conto che morirò, sono condannato a vivere nella violenza. Le due prese di coscienza sono strettamente legate: non c’è una senza l’altra. Non posso vivere serenamente se mi dimentico la mia morte e non posso vivere pienamente se non mi rendo conto che esisto.

Il fatto di non avere coscienza di me stesso, mentre sto vivendo, di dimenticarmi di me stesso in qualche modo, mi porta a una vita da automa, meccanica, istintiva, impulsiva, ipnotizzata dall’esterno, illusoria, dominata dal corpo… stato che conduce direttamente alla violenza.

Il fatto di non avere coscienza o di dimenticarmi che morirò mi porta al non-senso, all’assurdo, al nichilismo, al marginale… stato che conduce direttamente alla violenza.

Perché questa fuga dalla morte? È per paura di avere paura? È per non essersi interrogati e non aver riflettuto in merito? È dovuto al dubbio angosciante su cosa c’è dopo la morte o dopo la vita? Paradossalmente, più accetto di prenderla in considerazione, più mi permetto di guardarla in faccia, più mi ci avvicino, più la addomestico potremmo dire, e meno mi angoscia, meno mi terrorizza e più fa parte del mio paesaggio interiore.

Alla morte dell’amato fratello, per la prima volta contempla la morte con occhi spirituali, e ne è inorridito. Da uomo sincero, con straordinaria franchezza, si dichiara sconfitto da lei, si riconosce insignificante di fronte al suo potere. E questa verità lo salva. Da quel momento, si può dire che il pensiero della morte non lo ha più lasciato. Questo lo porta a una crisi morale inevitabile e alla vittoria su di lei[4].

Perché questa fuga dalla vita? Forse perché sono assorbito dal mondo esterno, preoccupato più di fare che di essere; forse anche perché mi dimentico le aspirazioni e gli ideali da cui partono tutte le mie azioni; forse per occuparmi in modo da non intravedere la mia inevitabile morte.

Vivere con la consapevolezza che esisto mi fa connettere a me stesso e al mondo simultaneamente. Ho coscienza dell’altro e di conseguenza fargli violenza è inconcepibile. Meglio ancora, con questo sguardo provo sentimenti di compassione, di protezione e di vicinanza con lui. Noi siamo uno, connessi gli uni agli altri, fuori dallo stato di indifferenza che ci separa, che è prima di tutto un’indifferenza a se stessi.

Integrando uno sguardo nuovo attraverso il quale accetto di contemplare la mia morte, riconosco che un giorno il mio corpo smetterà di funzionare, dovrò separarmene e liberarmene, e così continuare il mio cammino. Se sono cosciente che morirò, sono cosciente della morte dell’altro; questo ci avvicina, siamo entrambi in una situazione provvisoria, effimera. Se siamo simili, cosa possiamo fare insieme di costruttivo? Come possiamo aiutarci l’un l’altro invece di distruggerci? Rendermi conto della morte dell’altro mi ci fa avvicinare finché lui è qui, finché io sono qui. Cosa posso manifestargli? Cosa posso fare per lui? Che esperienza posso trasmettergli? Rendermi conto che anche l’altro morirà, mi invita a fare con lui tutto ciò che non potrò fare più tardi, perché sarà troppo tardi.

Accettare di vedere la mia morte mi dà un registro di libertà, quello di rompere le barriere, i divieti e i limiti che mi impediscono di ascoltare, di ricercare e di mettere in pratica le mie aspirazioni più profonde.

Quando mi fermo di tanto in tanto durante le mie attività quotidiane, anche solo per un momento, per connettermi con me stesso e interrogarmi in modo umile e compassionevole su queste domande fondamentali: Chi sono? Dove vado ?[5] prendo coscienza che esisto così come della mia finitezza. Sono domande che, soprattutto, conducono alla nonviolenza.

 

Note

[1] Elogio della fuga, Gallimard 1985, Edizioni Robert Laffont 1976, p. 184, Henri Laborit (19141995) medico chirurgo, neurobiologo e filosofo francese, rende comprensibili le neuroscienze per il grande pubblico.

[2] Interpretazioni dell’umanesimo, Edizioni Multimage, 1997, Salvatore Puledda (1943-2001), scienziato, pensatore e scrittore umanista.

[3] La coscienza in fuga, conversazione apocrifa, Silo, 1975.

[4] Lev Tolstoj, vita e opera, Pavel Ivanovič Birûkov (1860-1931), scrittore russo, biografo di Tolstoj, Mercure de France, 1906, p. 120.

[5] Il cammino, Il Messaggio di Silo.

 

Elenco dei capitoli e link ai capitoli già pubblicati:

1- Dove stiamo andando?
2- La difficile transizione dalla violenza alla nonviolenza.
3- Quei pregiudizi che perpetuano la violenza.
4- Oggi c’è più o meno violenza di ieri?
5- Le spirali della violenza.
6- Disconnessione, fuga e iper-connessione (a – Disconnessione).
7- Disconnessione, fuga e iper-connessione (b – Fuga).
8- Disconnessione, fuga e iper-connessione (c – iper-connessione).
9- Le diverse forme di rifiuto della violenza.
10- Il ruolo decisivo della coscienza.
11- Trasformazione o paralisi.
12- Integrare e superare la dualità e Conclusioni.

 

Traduzione dal francese di Raffaella Piazza. Revisione di Thomas Schmid.