In occasione della cerimonia istituzionale per il sessantesimo anniversario della strage degli algerini, una delle pagine più tragiche del colonialismo francese, avvenuta a Parigi il 17 ottobre 1961, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha riconosciuto i contorni e la tragedia della strage come una «verità indiscutibile». Tuttavia, la commemorazione non ha registrato un discorso da parte del presidente francese, come sarebbe stato forse giusto e opportuno aspettarsi, viceversa è stata accompagnata da un comunicato della Presidenza, tracciato nel senso di indicare, al tempo stesso, la gravità della strage e le responsabilità storiche di parte francese. Come ha riportato la stampa, «questa tragedia è stata a lungo taciuta, negata o nascosta», mentre i tragici eventi del 17 ottobre 1961 non possono essere qualificati se non come una «sanguinosa repressione».

Il comunicato prosegue segnalando che «la Francia guarda con lucidità a tutta la sua storia e ne riconosce le responsabilità chiaramente accertate. Lo deve innanzitutto a sé stessa, a tutti coloro che la guerra d’Algeria e il suo susseguirsi di crimini, commessi da tutte le parti, hanno ferito nel corpo e nell’anima. Lo deve in particolare ai suoi giovani, perché non rimangano prigionieri nei “conflitti della memoria” e sappiano costruire, nel rispetto e nel riconoscimento reciproco, il proprio futuro». Se da un lato, viene riconosciuto che «i crimini commessi quella notte sotto l’autorità di Maurice Papon sono imperdonabili per la Repubblica», dall’altro viene indicata l’autorità del prefetto di Parigi, Papon, e non dello Stato francese, quale nucleo della responsabilità della repressione, che si inserisce peraltro nel contesto più ampio del colonialismo francese in terra d’Algeria.

Torna, in queste parole, il tema, delicato e controverso, per altri aspetti discutibile e ambiguo, del “conflitto della memoria”, già al centro di analoghe prese di posizione da parte dell’Eliseo. A Sciences Po a Parigi, è attivo un gruppo di lavoro sul rapporto dello storico Benjamin Stora su “Memoria della colonizzazione e della guerra d’Algeria”. Il rapporto è stato redatto nel gennaio 2021 come base per una commissione di “Memoria e Verità” allo scopo di impostare «iniziative congiunte tra la Francia e l’Algeria sui temi della memoria» con l’obiettivo ultimo della “riconciliazione”. Il rapporto, pubblicato da Le Figaro, propone una ricostruzione in base alla quale immaginare un percorso di “memoria e verità”, e si sofferma, in particolare, su dieci proposte:

  1. l’istituzione in Francia di una commissione “Memoria e Verità” incaricata di promuovere iniziative congiunte tra Francia e Algeria sui temi della memoria (le “questioni della memoria”);

  2. la commemorazione delle date simboliche del conflitto, tra le quali l’accordo di Evian del 19 marzo 1962, l’omaggio agli harkis, i lealisti algerini sostenitori delle forze francesi tra il 1954 e il 1962, il 25 settembre, e la repressione, appunto, dei manifestanti algerini in Francia il 17 ottobre 1961, nonché la proposta di erigere “luoghi della memoria” in quattro campi di internamento per algerini in Francia;

  3. la restituzione all’Algeria della spada dell’emiro Abdelkader, eroe della resistenza nel XIX secolo;

  4. il riconoscimento dell’assassinio dell’avvocato e militante Ali Boumendjel (1919 – 1957), figura di primo piano del movimento progressista e del Consiglio Mondiale per la Pace, nella battaglia di Algeri (1957);

  5. l’istituzione di una commissione mista di storici francesi e algerini per fare luce sui rapimenti e gli assassinii di cittadini europei ad Orano nel 1962;

  6. lo sviluppo dei lavori sui test nucleari francesi nel Sahara e sulle loro conseguenze, nonché quelli riguardanti le mine antipersona durante la guerra;

  7. la facilitazione degli spostamenti degli harkis e dei loro discendenti tra la Francia e l’Algeria;

  8. la conservazione dei cimiteri europei in Algeria, nonché dei cimiteri ebraici e delle tombe dei soldati algerini morti per la Francia durante la guerra;

  9. lo sviluppo della ricerca sugli archivi, con l’obiettivo di trasferire alcuni archivi dalla Francia all’Algeria e consentire ai ricercatori dei due Paesi l’accesso agli archivi francesi ed algerini;

  10. infine, la ripresa del progetto (2010) di un “Museo di Storia della Francia e dell’Algeria” a Montpellier.

Tuttavia, lungi dall’imbastire un vero e proprio percorso di costruzione di commissioni per la verità e la riconciliazione, si tratta in sostanza di una iniziativa unilaterale della parte francese, che non ha mancato di suscitare polemiche e scatenare anche, recentemente, un vero e proprio scontro politico-diplomatico con l’Algeria, liberatasi, è bene ricordarlo, al prezzo di una dura guerra di liberazione nazionale dal giogo francese, costata, secondo stime, la vita di almeno trecentomila algerini, non meno di un milione secondo le autorità algerine.

Secondo quanto riferito dai media, non sarebbero mancate addirittura prese di posizione riecheggianti echi neo-coloniali o quanto meno venature provocatorie da parte del presidente francese, che avrebbe evocato una presunta rendita della memoria nel percorso di costruzione dell’Algeria post-indipendenza e che avrebbe parlato delle istituzioni algerine in termini di un sistema politico-militare, portando il governo algerino a denunciare, di conseguenza, i «commenti irresponsabili» e l’«inammissibile ingerenza negli affari interni» dell’Algeria.

Lo scorso 2 ottobre l’Algeria ha quindi deciso di richiamare il proprio ambasciatore a Parigi in segno di protesta di fronte alle dichiarazioni attribuite al presidente francese, e il 3 ottobre è arrivata la comunicazione della chiusura dello spazio aereo (spazio di sorvolo) algerino agli aerei militari francesi, una zona dello spazio aereo normalmente utilizzata dall’aviazione francese per raggiungere o lasciare la regione sahariana e subsahariana.

Se da un lato la Francia ha annunciato, anche con l’iniziativa del rapporto, la propria intenzione di avviare un percorso di “riconciliazione” legato al proprio passato coloniale, mai, tuttavia, fermamente e radicalmente messo in discussione e condannato, dall’altro continua a mantenere una presenza militare imponente nella regione. La Francia è presente in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon e Gibuti con contingenti, che, nell’insieme, assommano ad oltre tremila unità; allo stesso tempo, è presente con oltre cinquemila uomini in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad nella missione “Barkhane”; nell’ambito del dispositivo militare europeo è presente nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana e ha una missione marittima nel Golfo di Guinea. Sono oltre trentamila gli effettivi francesi dislocati nelle diverse missioni militari, bilaterali e multinazionali, nel mondo. La presenza militare francese, di carattere imperialistico, nella regione, è dunque più che mai eclatante.

Secondo le dichiarazioni dei veterani della Guerra d’Indipendenza (1954-1962), lo storico francese autore del rapporto, Benjamin Stora, ha celato i crimini coloniali della Francia in Algeria e non ha affrontato, nel rapporto, i numerosi crimini perpetrati dallo Stato francese. La stessa cerimonia del 17 ottobre ha suscitato la prevedibile reazione da parte algerina: il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha respinto l’approccio, il «pensiero colonialista», in merito alle questioni di natura storica con la Francia e ha ribadito, in un messaggio in occasione dell’anniversario della strage del 17 ottobre 1961, «la preoccupazione di affrontare i temi della storia e della memoria, senza compiacimenti o compromessi, e con vivo senso di responsabilità […] lontano dall’infatuazione e dal predominio del pensiero colonialista arrogante da parte di gruppi incapaci di liberarsi dal loro estremismo cronico», come si legge in un comunicato pubblicato sul sito internet della presidenza algerina.

Già a suo tempo i veterani avevano indicato che «gli algerini non si aspettano che lo Stato francese fornisca un risarcimento economico per i milioni di vite perse; invitano, piuttosto, lo Stato francese a riconoscere i propri crimini contro l’umanità», e, da più parti, è stato deplorato il fatto che l’Eliseo abbia sinora rifiutato sistematicamente di pronunciare scuse ufficiali e di intraprendere passi effettivi e concreti per impostare, con l’Algeria, un percorso di riconoscimento dei crimini commessi. Se, come è noto, di fronte alle lacerazioni e ai conflitti della storia, non è praticabile alcuna “memoria comune”, così non è realizzabile l’idea “di scrivere una storia comune tra l’Algeria e la Francia”. Dunque, come si diceva sopra, mancano due degli elementi necessari per attivare un vero e proprio percorso di «verità e riconciliazione»: il pieno riconoscimento dei torti e delle ingiustizie, e un approccio condiviso, non unilaterale, animato da sincere intenzioni di comprensione e di convivenza, che sia, al tempo stesso, capace di gettare luce sul passato e aprire le porte a una nuova speranza e a rinnovati rapporti in direzione dell’avvenire, una diversa, cioè, propensione verso il passato e immagine al futuro, che non può prescindere dalla parola, dall’ascolto e dalla partecipazione delle persone, della società.

L’esempio offerto dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per il superamento dell’apartheid in Sudafrica, la cessazione della segregazione etnica e la riparazione dei torti conseguenti è un esempio positivo, in un contesto del tutto diverso, di giustizia “riabilitativa” piuttosto che di giustizia “retributiva” in cui il punto non è solo distinguere tra il (chi ha) torto e la (chi ha) ragione, punire il colpevole e risarcire la vittima, sanzionare il reo perché sia ridotta la possibilità della recidiva; il punto è, in particolare, quello di individuare con rigore e nettezza i torti e le responsabilità, espungere dal contesto sociale contenuti e fattori che possano disarticolare il tessuto delle relazioni e la qualità della democrazia, distinguere il colpevole dalla colpa commessa e, per questa via, proteggere l’umanità di tutti e tutte e offrire al colpevole stesso una possibilità, affinché la colpa sia riconosciuta e confinata e, nella misura del giusto e del possibile, il colpevole sia reinserito. Quella rottura esige di salvaguardare l’umanità delle persone e, al tempo stesso, la compiutezza dei rapporti sociali.

Tale modello di giustizia, nel caso sudafricano ed altri casi simili, ha consentito alla popolazione di acquisire consapevolezza condivisa delle ingiustizie patite per evitare che potessero e possano ripetersi ancora in futuro; ha dato una possibilità ai responsabili di acquisire consapevolezza delle colpe commesse, della violenza compiuta e del dolore provocato, chiedendo perdono non solo di fronte alla vittima ma di fronte alla intera comunità; e ha offerto uno spazio e un tempo alle vittime per condividere, a livello pubblico e sociale, il dolore, la violenza, l’ingiustizia subita, facendo del loro il caso esemplare di giustizia da esigere, non solo per sé, ma per tutti e tutte. Non si tratta di “perdonare” e “dimenticare”, ma di trascendere il dolore e il trauma e traguardare una prospettiva di giustizia e di inclusione. Ciò è valso in Sudafrica, e può valere nei casi in cui ciascuna delle parti abita un medesimo spazio pubblico, che risulterebbe del tutto sfigurato senza una tale “compresenza”.

Riconoscere il portato dei movimenti storici di liberazione, all’insegna dell’autodeterminazione, resta centrale, in ogni caso, per contrastare ogni forma di colonialismo e neo-colonialismo e per ribadire la centralità dei diritti e della libertà dei popoli, fondamento dell’amicizia e della solidarietà tra le nazioni. Non è un caso che il 4 luglio 1976 proprio ad Algeri, per iniziativa di Lelio Basso, fosse proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, vale a dire la Carta di Algeri, proposta di paradigma dei diritti dei popoli e compimento, al tempo stesso, del processo di decolonizzazione inaugurato all’indomani della seconda guerra mondiale. Qui si riconosce, in premessa, che «l’imperialismo, in forza di meccanismi e di interventi perfidi o brutali, con la complicità di governi spesso da esso stesso imposti, continua a dominare una parte del mondo», e si rivendica, all’art. 28, che «ogni popolo i cui diritti fondamentali sono gravemente misconosciuti ha il diritto di farli valere soprattutto attraverso la lotta politica o sindacale e anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza».