«È chiaro che questi monumenti, tutt’oggi, non sono Serbi, Croati, Sloveni, … né Albanesi. I rinati sentimenti nazionalistici non lasciano spazio a monumenti che non hanno una propria “identità nazionale”. Non c’è spazio per questi memoriali, quando si è così impegnati nel riscrivere la storia. Chi ha bisogno di monumenti che non siano né pienamente Serbi, né completamente Albanesi, ma consistano di entrambi questi retaggi? […] I monumenti jugoslavi non sono semplicemente Serbi: sono Jugoslavi. E, dal momento che gli Albanesi ne facevano parte, tali monumenti restano parte del nostro patrimonio». Così, acutamente, scrive Vesa Sahatciu, nel suo Monuments without a Home, pubblicato qualche tempo fa sul magazine “Kosovo 2.0”. I monumenti, i memoriali, le architetture simboliche e le sculture monumentali, che sono uno dei tratti caratterizzanti del paesaggio post-jugoslavo, conservano un potente carico di suggestione e di fascino proprio per l’eco memoriale che, dal passato, veicolano nel presente, e per l’indubbia potenza di simboli e di miti di cui sono rivestiti.

I punti di rottura dalle cui linee di faglia sono scaturite queste straordinarie sperimentazioni estetiche e visuali sono stati, indubbiamente, la gloriosa resistenza e la lotta di liberazione antifascista dei popoli jugoslavi, la fondazione, nel 1945, della Jugoslavia Socialista, il dissidio e, quindi, la “rottura” tra Tito e Stalin, con l’uscita della Jugoslavia dall’alleanza con il blocco sovietico, nel 1948, tutti eventi che, proprio per la loro portata nell’immaginario, ebbero non solo un riverbero politico, sociale, economico, ma anche un grande impatto nel campo dell’estetica, dell’arte e della cultura. Quella “rottura” fu, non unico, tra i presupposti del superamento del realismo socialista e dell’approdo a un’innovativa ricerca concettuale, sperimentale, estetica evidentemente, che puntava ad una rinnovata libertà di espressione e di manifestazione artistica, che ha poi portato a forme astratte, spesso potentemente simboliche, profondamente influenzate dalle correnti moderniste in Occidente.

In questa inedita “contaminazione” si verificò in effetti anche una conferma della creatività del socialismo nei suoi indirizzi estetici e nelle sue manifestazioni pubbliche: i temi elaborati confermavano saldamente il quadro dell’ideologia socialista, come i memoriali dedicati alla liberazione antifascista; o ancora, andando per esempi, il monumento dedicato alla Fratellanza e Unità nel centro di Prishtina, opera di Miodrag Živković del 1961; il Sacrario della Rivoluzione dedicato ai lavoratori albanesi e serbi, caduti nella lotta di liberazione, a Mitrovica, opera di Bogdan Bogdanović del 1973; il Cimitero dei Martiri a Velania, ancora a Prishtina, opera di Svetislav Ličina ancora del 1961, solo per restare agli esempi salienti che tuttora si possono ammirare in Kosovo. La direzione jugoslava era dunque consapevole del momentum della nuova arte jugoslava, nel senso di creare qualcosa di originale e diverso, una nuova tipologia di “arte per il popolo”, capace di rappresentare identità, peculiarità, caratteristiche, principi etici e valori fondativi della federazione socialista jugoslava. Le opere di Bogdan Bogdanović, con i loro motivi floreali e le loro forme totemiche, sono esemplari di questo nuovo stile. E d’altra parte è impossibile prenderne consapevolezza se non li si “visualizza” propriamente nel loro contesto.

Si può dire che il modernismo jugoslavo ha costituito un prodotto propriamente jugoslavo, una “terza via” tra il realismo socialista e il liberalismo occidentale, capace di sintetizzare, tra gli altri, suggestioni quali quelle di Le Corbusier e Mies van der Rohe, surrealismo, razionalismo e astrattismo. Questa libertà ha dato spazio alla interazione e commistione di idee estetiche moderniste con le specificità sociali e culturali, ma anche geografiche e territoriali, persino economiche e sociali (l’autogestione, ad esempio) della Jugoslavia, portando alla creazione di monumenti caratterizzanti i diversi territori della federazione. Pensiamo ai grandi complessi monumentali, di Slobodište, a Kruševac (Bogdan Bogdanović, 1965), di Kadinjača, a Užice (Miodrag Živković e Aleksandar Djokić), a Sremska Mitrovica. È, cioè, una vera e propria “costellazione”. Sotto il profilo politico, la Jugoslavia era una federazione multinazionale, basata sui principi dell’unità e della fratellanza dei popoli, organizzata nella forma di una federazione di sei repubbliche e due province autonome, basata su una organizzazione sociale centrata sull’autogestione economica e la direzione politica della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, che intendeva creare un linguaggio visivo e una memoria collettiva che riunisse tutti i popoli e le nazionalità.

Né va dimenticato che il contesto in cui è stata costruita la Jugoslavia è stato quello della resistenza partigiana e della lotta di liberazione antifascista, ove le forze socialiste hanno giocato un ruolo determinante, mentre il nazionalismo, come piattaforma politica e criterio di organizzazione sociale, non poteva avere un ruolo positivo. È quindi, come si diceva all’inizio, sbagliato “leggere” il patrimonio culturale della Jugoslavia attraverso concetti alieni al quadro in cui questi monumenti sono stati creati o incoerenti rispetto ai principi in virtù dei quali sono stati edificati. Non è possibile leggere in chiave etnica o nazionale (“nazionalizzazione”) i patrimoni culturali della Jugoslavia, e non è possibile prescindere dal fatto che l’innovazione delle forme, dal modernismo al simbolismo, serviva proprio a rappresentare e veicolare principi di autonomia ed indipendenza, di fratellanza ed unità, di amicizia tra i popoli, di incontro tra le culture, solidarietà, antifascismo, socialismo.

Sono pertanto, più che “antistorici”, “inattuali”, nel senso che non trovano corrispondenza nelle categorie del presente (etnicità, nazionalità, capitalismo), bensì si pongono come “ridondanza”, una eccedenza semantica, una anomalia culturale, un luogo della memoria capace di veicolare valori, al tempo stesso, lontani e universali, nel flusso, che sembra andare, non senza speranza, in tutt’altra direzione, della storia dell’Europa del Sud Est.

Per approfondire: G. Pisa, Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente, Multimage, Firenze, 2021: https://multimage.org/libri/di-terra-e-di-pietra