Dopo le risposte di Riccardo NouryLaura QuaglioloGiovanna Procacci, Giovanna Pagani,  Guido Viale,  Andreas Formiconi, Jorida Dervishi, Pia Figueroa e Renato Sarti, sentiamo dal Regno Unito Yasha Maccanico.

Ora che stiamo uscendo dall’emergenza Covid19 molti dicono: “Non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”. Questa dunque può essere una grande occasione di cambiamento.

Qual è secondo te la necessità di cambiamento più urgente in questo momento e cosa sei disposto a fare in quella direzione?

Grazie per avermi rivolto delle domande fondamentali, alle quali è difficile dare una risposta compiuta. Parto schematicamente dalle lezioni che si possono trarre dall’emergenza attuale.

1) Il virus ha colpito quando gli sforzi di alcuni Stati e dell’UE per disumanizzare le persone al servizio delle politiche d’immigrazione avevano raggiunto un livello intollerabile.

2) Il Covid-19 dimostra che formiamo parte di una comune umanità.

3) Un’enorme operazione di chiusura delle frontiere non ha evitato che il virus arrivasse ovunque.

4) Le capacità degli Stati di affrontare i problemi sono limitate e un’impostazione che esagera ogni rischio per accrescere i poteri statali non aiuta in presenza di una reale emergenza.

5) L’esclusione strutturale di segmenti della popolazione danneggia l’intero corpo sociale.

6) Siamo parte della natura: ce ne dobbiamo prendere cura, aiutarci reciprocamente e sviluppare forme collettive di azione propositiva per rafforzare i diritti e l’ecologia.

Condivido una lettura che contestualizza la pandemia per capirne le origini e ricavarne delle lezioni utili per il presente e il futuro. Il titolo del libro “Nulla di questo mondo ci risulta indifferente” e l’analisi della primatologa Jane Goodall, che sottolinea la nostra oscena mancanza di rispetto per gli animali e l’ambiente, dicendo “Ce lo siamo fatti da soli”, colgono il problema in modo sintetico. Queste riflessioni sull’ambientalismo precludono un ritorno alla normalità precedente, come se non fosse successo nulla. Le azioni del genere umano non sono scindibili dal mondo che ci circonda: possiamo imparare dal calo dell’inquinamento causato da una temporanea riduzione di alcune attività produttive ed economiche.

Resto convinto che la priorità sia porre fine al maltrattamento strutturale delle persone per fini strumentali legati alle politiche d’immigrazione europee e nazionali, che promuovono una sorta di razzismo di Stato. In questo campo, non si può tornare a una normalità che, al di là degli abusi inflitti alle persone migranti, è una forma di autolesionismo che porta a imporre delle forme di potere autoritario a scapito della democrazia e dello stato di diritto. Mentre tutto si fermava, non sono cessati gli abusi e le pratiche illecite degli Stati (in terra come in mare) per perfezionare un modello basato sull’esclusione e su una continua produzione di gerarchie. Queste gerarchie, come sottolineava Foucault riferendosi al razzismo, servono a sancire il potere del sovrano di permettere la vita o di decretare la morte di vari soggetti.

Nel sostenere l’impossibilità di tornare alla normalità, bisogna anche essere consapevoli di una spinta dall’alto volta a usare l’emergenza per inasprire delle politiche che negano il valore delle persone e delle loro vite. I fautori della chiusura, spacciatori di mezzi per il controllo delle frontiere e promotori del business della lotta contro l’immigrazione, non vogliono tornare alla normalità. Per loro, il virus è stata una manna che ha permesso una chiusura generalizzata delle frontiere precedentemente impensabile e i governi hanno potuto bloccare le persone in casa, questa volta per un motivo comprensibile di salute pubblica.

Una reazione dopo questo periodo anomalo richiede delle azioni collettive improntate al rispetto per l’ambiente e per le persone che riconosca i limiti degli Stati. L’impostazione apparentemente egemonica delle politiche d’immigrazione degli stati europei e dell’UE marcia spedita nella direzione opposta e tende a normalizzare gli abusi usando qualsiasi pretesto. Ora c’è un’ulteriore scusa per trattare l’estraneo come una minaccia: il rischio d’infezione. Frontex già adottava tale modello, sforzandosi di fornire delle analisi che lo giustificassero. Le sue analisi puntano ad azzerare gli attraversamenti di frontiera non autorizzati e a espellere ogni persona “irregolare”, senza alcun contrappeso.

Cosa servirebbe per appoggiare quel cambiamento, a livello personale e a livello sociale?

A livello personale, penso che uscire dall’emergenza in modo positivo richieda uno sforzo per opporsi alle politiche d’immigrazione, partendo dalla loro impostazione e dall’universalità dei diritti. Ho elaborato un piano in cinque punti per scardinare questo modello distruttivo, un’alleanza tra categorie professionali si deve opporre all’imposizione di certe letture fantasiose (come la regolarità della zona SAR libica o la necessità di rinforzare Frontex) a sostegno di un modello costoso che non regge, a livello teorico e nella pratica. Il primo punto poggia sul ruolo nocivo di Frontex; il secondo è la revoca della zona SAR libica; il terzo si oppone agli sforzi per perfezionare la politica dei rimpatri dell’UE, attuando un’autentica caccia all’uomo e delle deportazioni su grande scala; il quarto richiede una regolarizzazione ampia di migranti e l’acquisizione della cittadinanza da parte dei cosiddetti “nuovi italiani”; il quinto richiede una critica basata sull’autolesionismo di queste politiche che danneggiano il progetto europeo e i suoi Stati, dovuto alla deriva autoritaria che promuovono.

Sono sforzi necessari a livello europeo, nazionale e globale. Nel Regno Unito (dove vivo) l’ideologia antimigratoria ha dimostrato che è difficile limitare la portata della discriminazione dopo che è stata normalizzata. Con il voto sulla Brexit, una cospicua porzione dei votanti ha consapevolmente scelto di peggiorare le sue condizioni materiali, a patto di poter stabilire un rapporto gerarchico tra autoctoni e stranieri (anche comunitari). In Italia (il mio paese), gli sforzi della Commissione e di Frontex per perfezionare il modello di gestione dell’immigrazione nei “paesi di primo approdo” hanno alimentato una deriva razzista. A livello europeo, l’ “agenda europea” in questo campo ha sacrificato due paesi (Italia e Grecia), spingendoli verso delle pratiche illegali e a subordinare le loro Costituzioni e il diritto europeo a degli obiettivi strategici.

L’isolamento delle politiche migratorie e dei loro obiettivi dai loro effetti nocivi permette di continuare a perseguire scopi come “ristabilire la credibilità della politica europea sui rimpatri” o “esternalizzazione”, come se non fossero una fonte di storture e di gravi violazioni dello stato di diritto, in Europa e fuori dalle sue frontiere.

Queste politiche impegnano ingenti risorse, sforzi e il lavoro di molte persone per dei fini distruttivi, discriminatori e difficilmente giustificabili. Le attività di governo e l’impostazione delle politiche devono porsi l’obiettivo di permettere alle persone e ai collettivi di dare il meglio di sé per contribuire al progresso. Il modo più evidente in cui il disprezzo per gli animali e la natura di cui si lamenta Jane Goodall è passato agli esseri umani, come un virus, sono tali politiche. La loro “esternalizzazione” equivale a esigere che i paesi terzi maltrattino gli stranieri identificati come “possibili migranti irregolari” nei loro territori. L’efficacia nell’attuare questo compito viene pagata bene. Il degrado delle forze di polizia e dei corpi di sicurezza prodotto da tale impostazione è palese anche negli Stati dell’UE.

L’alleanza tra diverse professioni, gruppi sociali e politici per scardinare questa deriva deve partire dalla constatazione che queste politiche, in soldoni, sono uno sforzo inutile che spinge i nostri paesi a danneggiarsi per fare del male all’altro. Tale “altro” non si può ben definire, ma le categorie penalizzabili si sviluppano in modo intrinsecamente espansivo. Negli anni 90, l’impostazione delle politiche contro l’immigrazione “irregolare” sanciva il dovere di intervenire contro i “clandestini”, ma anche contro chi era sospettabile di esserlo. Tali azioni avrebbero anche colpito chi aveva rapporti con tali persone di tipo affettivo, familiare o di amicizia, in modo evidente nel caso dei controlli sui matrimoni. Dal 2014, la lotta contro i migranti è diventata una lotta contro chi non sostiene queste politiche e/o agisce in solidarietà con le persone penalizzate. Le azioni delle autorità pubbliche andavano in questa direzione, raggiungendo l’apoteosi con il governo Lega-5 Stelle. La società civile ha riconosciuto la deriva autoritaria in corso ed è intervenuta per opporsi, in mare come in terra, in alcuni mezzi d’informazione e nei tribunali, ma la spinta repressiva continua. Mentre  in Italia il cambio di governo ha deluso le attese su questi temi, il fronte caldo è passato a essere in Grecia con nuovo governo e un’impostazione intransigente, fiera di violare i diritti delle persone.

Ormai anche i movimenti, i giornalisti, i giudici, gli accademici e le ONG che documentano gli abusi in questo campo sono diventati nemici che si oppongono a delle politiche pubbliche. Questa evoluzione ha portato all’arruolamento dell’estrema destra per sconfiggere le resistenze, mettendo in pericolo altri collettivi verso i quali tali forze sono ostili, dagli LGBTQ+ alle sinistre popolari e gli intellettuali che presentano letture complesse della realtà. Le derive autoritarie suscitate da queste politiche si sono palesate dall’Ungheria all’Italia, dalla Francia alla Grecia, dal Regno Unito alla Polonia e agli Stati Uniti.

La strada maestra, a mio parere, parte da un’opposizione frontale e informata che scalfisca le menzogne ufficiali. Nel Regno Unito, per aumentare il numero di espulsioni (obiettivo strategico), hanno cominciato a espellere delle persone che non hanno nulla a che vedere con l’immigrazione, venute dai Caraibi oltre mezzo secolo fa. Lo scandalo Windrush ha riprodotto dei rapporti coloniali e razzisti che si pensavano relegati al passato. Con la Brexit, si prevedono degli sforzi per penalizzare gli europei (“prendere il controllo delle nostre frontiere”) senza esplicitare l’ovvietà del fatto che i cittadini britannici negli altri paesi membri ne soffriranno le conseguenze. Restringere la possibilità di entrare agli “altri”, significherà che anche la “loro” mobilità verrà limitata. Spero che l’assurdità di compiere tali sforzi che penalizzano tutti senza che nessuno ne benefici contribuisca a far riformare queste politiche.

In Italia e altrove, il razzismo e l’autoritarismo che si celano dietro alla richiesta di “controllo” migratorio sono ormai palesi. Sconfiggerle per garantirci un presente e un futuro migliori richiede uno sforzo da parte delle persone, delle società e delle istituzioni (nazionali, europee e globali), perché sono le piaghe di questo tempo. La protesta al grido di “Black Lives Matter” negli Stati Uniti è altrettanto valida in ambito europeo riguardo agli effetti letali, deumanizzanti e strutturali di queste politiche che continuano a produrre morti e a degradare le vite delle persone. In più, sia l’Italia che il Regno Unito hanno vissuto la pandemia in modo traumatico, correndo il rischio che i loro cittadini fossero trattati come rischi per la salute pubblica, il che può comportare delle penalizzazioni.

Rendendoci conto di tutto ciò, non vedo come si possa tornare alla “normalità”. Purtroppo, le proposte attuali in ambito UE, sancite dalla disgraziata visita in Grecia dei presidenti della Commissione, del Parlamento Europeo e del Consiglio durante la quale Ursula Van Leyden ha ringraziato la Grecia per aver fatto da scudo alll’Europa da migranti e rifugiati, non promettono nulla di buono. Come al solito, di fronte a tante criticità evidenti, la scelta è stata di bendarsi gli occhi e di avanzare a passo spedito.

https://www.statewatch.org/