Con l’odierna votazione del Parlamento dell’auto-proclamata “Repubblica del Kosovo” si conclude (per il momento…) la lunga e travagliata crisi politica che ha segnato la regione negli ultimi mesi, dopo le elezioni politiche, la formazione (prima) e la caduta (poi) del governo Kurti, il difficile passaggio parlamentare e la decisione in merito della Corte Costituzionale, che ha spianato la strada all’insediamento del nuovo governo guidato da Avdullah Hoti sullo sfondo della crisi generata dagli effetti della pandemia da coronavirus. Non è mancato nessuno dei momenti di un vero e proprio showdown politico. In primo luogo, la fine dell’esperienza di governo di Albin Kurti e della maggioranza che lo sosteneva, che si basava sull’accordo, rivelatosi poi assai problematico, tra le due forze uscite “vincitrici” dalle ultime elezioni: Vetëvendosje (Autodeterminazione), il partito del premier uscente, e la LDK (la Lega Democratica del Kosovo), che aveva insediato una propria esponente di primo piano, Vjosa Osmani, alla presidenza del Parlamento.

Quindi l’apertura della crisi sullo sfondo dell’emergenza legata alla gestione della pandemia, ma anche costellata di accuse, contro-accuse e veleni: dapprima, lo scontro tra il premier Kurti e l’ex suo ministro dell’interno, Agim Veliu, proprio in merito alle modalità e alla gestione delle misure di contenimento del contagio; poi la rottura dell’alleanza tra i due principali partiti di governo con scambi di accuse reciproche; quindi, ancora, le continue e sempre meno velate allusioni ad una «agenda nascosta» al tavolo negoziale bilaterale tra Prishtina e Belgrado. Secondo queste accuse, sul tavolo sarebbe stata posta la questione dello scambio di territori per linee etniche tra la Serbia e il Kosovo, anche – come la stampa ha riferito – con il sostegno di settori del LDK e del PDK, il Partito Democratico del Kosovo, e del presidente stesso dell’auto-proclamata repubblica, Hashim Thaci. Al punto che, da quanto si apprende dai media, ancora nelle scorse settimane, nella sua veste di premier facente funzioni Kurti avrebbe contattato diversi leader regionali (il presidente della Macedonia del Nord Stevo Pendarovski, il primo presidente nella presidenza tripartita bosniaca Šefik Džaferović, il presidente albanese Ilir Meta, ma anche il capo di stato montenegrino Milo Đukanović) proprio per contrastare la tesi diplomatica del cosiddetto «land swap» e ribadire, in alcuni di questi contatti, che quella dello scambio dei territori è un’idea pericolosa che avrebbe rischiato di «riportare la regione indietro agli anni Novanta».

Ma poi, se la partita diplomatica è ancora in corso, sempre più complessa nel gioco politico tra gli interessi europei e quelli statunitensi nella regione, la partita istituzionale è andata avanti e ha trovato il punto di svolta nella decisione della Corte Costituzionale kosovara cui aveva fatto appello il premier uscente. Questa ha confermato la legittimità della decisione del presidente di non sciogliere l’assemblea e di affidare l’incarico ad un altro esponente politico a fronte della formazione di una rinnovata maggioranza parlamentare. Inizialmente era stata esplorata la possibilità di una nuova premiership espressa da Vetëvendosje, il partito di maggioranza relativa; dopo la decisione di quest’ultimo di non indicare nessun altro esponente per la premiership che non fosse lo stesso Kurti, l’incarico è stato affidato ad un esponente del secondo partito, la LDK, con il compito di assicurare al governo una nuova maggioranza parlamentare.

A dispetto della “pretesa” di Vetëvendosje, con la richiesta di sciogliere il Parlamento e andare a nuove elezioni la Corte Costituzionale ha ribadito un principio basilare della democrazia parlamentare, vale a dire che la mozione di sfiducia al capo del governo non dà luogo automaticamente allo scioglimento dell’assemblea. Se è vero che il presidente ha la possibilità di sciogliere il Parlamento egli, tuttavia, non può farlo «in contrasto con la volontà dell’Assemblea» stessa. Nella decisione si legge peraltro che «l’adozione della voce verbale «può» («may») nel comma 2 dell’art. 82 della Costituzione riflette semplicemente la facoltà del presidente di sciogliere l’assemblea sulla base delle consultazioni con i partiti politici rappresentati nell’assemblea stessa».

E così si giunge al terzo atto dello showdown, quando entra in gioco, come in ogni conta parlamentare degna di questo nome, il pallottoliere: ancora alla vigilia del voto in assemblea, Arben Gashi, capogruppo LDK, assicurava che il nome di Hoti poteva disporre di una «maggioranza certa» di 64 voti sul totale dei 120 deputati: 28 della LDK, 13 dalla AAK di Ramush Haradinaj, 4 da NISMA, gli altri dai partiti delle comunità non-albanesi e in particolare della Lista Serba, che conta 10 deputati nel Parlamento kosovaro. Previsione sostanzialmente confermata dall’odierno esito del voto: hanno partecipato 86 deputati, 61 hanno votato la fiducia (24 i contrari, 1 astenuto). Maggioranza, per un voto. Che governo sarà, allora, il nuovo Governo Hoti? Forse meno un Governo del Presidente di quanto ci si aspetti; ma senza dubbio chiamato ad affrontare (almeno) due prove cruciali: fare uscire la regione dagli effetti gravissimi del lockdown e fare avanzare il dialogo con Belgrado fino ad una soluzione, si spera, positiva: «win-win».