Era il 14 maggio di 72 anni fa, un giorno prima che scadesse il mandato britannico sulla Palestina, quando Ben Gurion, capo dell’Organizzazione Sionista Mondiale fondata nel 1897 da Theodor Herzl e presidente dell’Agenzia Ebraica, proclamò la nascita dello Stato di Israele.  Non fu una nascita stabilita dall’ONU ma fu un’autoproclamazione, peraltro su un territorio già abitato.

L’occasione fu fornita dalla Risoluzione ONU 181 del 29 novembre 1947, Risoluzione molto sofferta e fortemente voluta dal presidente USA Truman. La giustificazione teorica era quella di portare la pace in quella zona del Medio Oriente abitata da arabi di diverse religioni, prevalentemente musulmani, ma con un buon 20% di cristiani e circa il 6% di ebrei, questi ultimi in parte nativi e in parte arrivati dall’Occidente negli ultimi decenni.
Non era il credo religioso il problema del conflitto che in diversi periodi del Mandato britannico (ottenuto alla fine della Prima guerra mondiale e non certo per fini caritatevoli) si era ripresentato, quanto piuttosto l’uso politico della religione che, a partire dalla fondazione dell’Organizzazione Sionista Internazionale era diventato occasione per pretendere l’occupazione della Palestina, accampando come diritto la mitologia biblica.
Fu la genialità di Theodor Herzl, il giornalista austriaco padre del sionismo, a dare questo impulso para-religioso quando, dopo aver abbandonato la possibilità di creare uno Stato per gli ebrei in America o in Africa, aveva pensato, pur essendo ateo, che scegliere un luogo in cui si potessero accampare miti fondativi di carattere religioso sarebbe stata la carta vincente per far sentire “popolo” genti provenienti da tutto il mondo e unite solo dalla comune religione.

Il Mandato britannico, pur non essendo favorevole agli arabi, stava tuttavia piuttosto stretto agli ebrei sionisti che ormai, animati dal progetto lanciato da Herzl, si macchiarono di notevoli crimini e non solo contro i palestinesi, al punto che il Regno Unito, quache anno dopo la Grande rivolta araba del “36/”39, decise di restituire il Mandato stesso non riuscendo a gestire i disordini che ormai potevano essere a buon diritto chiamati terrorismo delle varie formazioni paramilitari sioniste.
Infatti, il terrorismo ebraico pre-israeliano, di cui si è costretti a tener conto per correttezza storica facendo bene attenzione a strumentali fraintendimenti, ormai non si limitava più agli orrendi massacri commessi nei villaggi palestinesi, ma colpiva anche strutture britanniche, nonostante il debito di riconoscenza che il futuro Israele doveva al Regno Unito, anche solo pensando alla dichiarazione di lord Balfour del 1917. Possiamo ricordare, tra le varie azioni moralmente ripugnanti aventi come obiettivo gli inglesi, il massacro del luglio 1946 all’hotel King David a Gerusalemme, sede degli uffici amministrativi britannici, che provocò un centinaio di morti per mano dell’Irgun e della banda Stern, ai cui vertici si trovavano Begin e Shamir (successivamente divenuti importanti e rispettati statisti israeliani) con l’approvazione dell’Agenzia ebraica, ovvero di Ben Gurion, padre fondatore e primo presidente di Israele.

In realtà la Risoluzione 181, che in teoria aveva l’obiettivo di riportare la pace nella Palestina storica dividendone il territorio, non fu mai rispettata. Gli arabi palestinesi, vedendosi togliere il 56% della propria terra da una mano giudicante che non li aveva neanche interpellati, dissero no.
Gli ebrei , invece, ebbero posizioni diverse. Le formazioni terroriste dell’Irgun, della banda Stern e buona parte dei nazionalisti si opposero vigorosamente alla partizione, in quanto rivendicavano l’intera Palestina per la costituzione di Eretz Israel, la grande Israele. Accampavano diritti che andavano anche oltre il fiume Giordano utilizzando l’ineffabile patto di Abramo con Dio per il possesso della “terra promessa”, esattamente come previsto nella grande intuizione di Theodor Herzl .
Ma l’intelligenza politica che non è mai mancata ai futuri israeliani, fece dire a Ben Gurion che andava bene così. Già anni prima, il futuro presidente di Israele, si era espresso dicendo che la fondazione di uno stato ebraico sarebbe stata un primo passo “per il possesso della terra nel suo complesso”.

Quindi il rifiuto degli arabi era un’ottima notizia, sarebbe iniziata una guerra civile già all’emanazione della Risoluzione ONU e poi una guerra vera e propria non solo con i palestinesi ma con tutti gli eserciti arabi. L’importante sarebbe stato vincerla e aumentare da subito il proprio territorio. Infatti, nell’autoproclamazione della nascita di Israele, detta pure atto di indipendenza, del 14 maggio 1948, non si accenna ai confini e tutt’oggi Israele non ha una vera e propria costituzione perché quell’obiettivo, precedente alla stessa fondazione di Israele, passo dopo passo, grazie alla tolleranza o alla complicità internazionale, si sta realizzando e i confini hanno ancora tempo per essere posti.
Israele attende. Attende che le parole di Begin in risposta alla Risoluzione 181 si facciano realtà, cosa che, grazie all’accelerazione data dal presidente più rozzo d’America, sta succedendo. Begin, fondatore del Likud e primo ministro dello Stato di Israele, quando ancora era nei ranghi del terrorista dell’Irgun aveva detto che “La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre”

Se non ci fosse stata la lungimiranza di Ben Gurion, forse lo Stato di Israele non sarebbe nato, ma la storia andò così. Israele, nato alle 4 di un pomeriggio con riunione organizzata in segreto, ma lettura della dichiarazione d’indipendenza inviata in diretta alla radio, Kol Yisrael che iniziò così le sue trasmissioni, ebbe il primo riconoscimento dall’Unione Sovietica a soli tre giorni dall’autoproclamazione. Il suo esercito, incredibilmente potente per uno Stato appena costituito riuscì a tener testa agli eserciti di tutti i paesi arabi che tentarono di sopraffarlo. Roba che, se non si crede ai miracoli, si deve per forza credere a tanti interessi occidentali che, mentre avevano taciuto durante la tragedia della Shoah, oggi si prodigavano per sostenere uno Stato che della Shoah avrebbe fatto il suo cavallo di battaglia e il suo silenziatore di ogni critica per le sue azioni aberranti e criminali contro i palestinesi.
Poche ore dopo la dichiarazione di Ben Gurion l’esercito mandatario avrebbe lasciato la Palestina, come già reso pubblico in precedenza e ben calcolato dal fondatore del nuovo Stato.
Israele nasceva quindi al di fuori della legalità internazionale ma veniva immediatamente riconosciuto e poco dopo accolto come membro delle Nazioni Unite.

 

I massacri di palestinesi, già iniziati pochi mesi prima, il 15 maggio divennero vera e propria catastrofe, la NAKBA, appunto. Le formazioni paramilitari, che presto sarebbero quasi tutte diventate componenti effettive dell’esercito “più morale del mondo” ebbero un ruolo importante, un ruolo che nessuna Risoluzione ONU avrebbe mai potuto dichiarare: quello di iniziare la pulizia etnica della Palestina.
Israele voleva la terra palestinese, non voleva uno Stato al cui interno potessero convivere gli autoctoni. La dichiarazione d’indipendenza parlava di Stato con parità di diritti senza distinzione di credo, di sesso, o di razza, è vero, ma le parole servono alla narrazione. I fatti erano altri: bisognava liberare le case palestinesi affinché vi si potessero insediare gli ebrei venuti da varie parti del mondo.

In pochi giorni vennero distrutti i primi 432 villaggi di varie dimensioni. Città come Haifa o Jaffa vennero occupate e bombardate. Gli abitanti cacciati o uccisi o costretti a fuggire per il terrore di essere a loro volta uccisi o fare la fine degli abitanti di Deir Yassin, o di Abu Shuha, o di Al Arabiya dei cui massacri, come quelli di tanti altri villaggi, erano arrivate le notizie portate dai superstiti terrorizzati.
Quasi tutti i circa 750.000 palestinesi costretti a lasciare le loro case non ancora distrutte portarono con sé le chiavi, convinti che l’ONU avrebbe ristabilito i loro diritti o che chi eserciti arabi avrebbero costretto Israele a fermare le sue pretese.
Non andò così. La guerra andò avanti con alcune brevi tregue e Israele, il “piccolo Stato appena nato” forte di una dotazione militare che neanche Dio avrebbe saputo fornirgli, vinse la guerra appropriandosi del 78% del territorio palestinese contro il 56% previsto nella Risoluzione 181.

Per i palestinesi il 15 maggio del “48 iniziò la diaspora. Paradossalmente, lo stesso anno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, i palestinesi si videro privati di ogni diritto da parte di uno Stato che voleva eliminarli dalla loro terra, distruggerne la cultura e la memoria affinché quella terra diventasse loro aliena.
Nel dicembre dello stesso anno l’ONU emanò la Risoluzione 194 con la quale dichiarava il diritto al ritorno nelle loro case e nelle loro terre dei profughi palestinesi. Israele non riconobbe mai quel diritto, lo stesso per il quale i palestinesi di Gaza hanno portato avanti per circa due anni la Grande Marcia de Ritorno, ricevendo dal mondo indifferenza e qualche buona parola mentre Israele decretava la pena di morte senza processo dei manifestanti inermi uccidendone circa 300 e lasciandone mutilati alcune centinaia. Nessuna sanzione contro o Stato ebraico neanche stavolta, solo qualche richiamo a non essere troppo birichino!

Israele non ha rispettato mai nessuna Risoluzione ONU, ha seguitato a mangiarsi terra palestinese creando suoi insediamenti abitativi illegali in tutta la cosiddetta Area C, cioè la parte di territori palestinesi “temporaneamente” sotto la sua giurisdizione secondo gli infelici Accordi di Oslo del 1993.
Il desiderio di Begin e le profezie di Ben Gurion si avvicinano alla realizzazione. Israele, mostrando al mondo che il Diritto è carta straccia quando si ha la forza e le giuste alleanze, sta per annettersi – sostenuto e incoraggiato dall’America del presidente Trump, a sua vota sostenuto dalle lobby ebraiche negli Usa – un altro grosso pezzo di Palestina, quello in cui ha illegalmente costruito le proprie colonie, e la Valle del Giordano. I palestinesi si oppongono ma è una battaglia impari tra una voce che grida i suoi diritti e un gigantesco mostro armato di tutto che quei diritti li calpesta senza averne in cambio neanche una sanzione.

Oggi i palestinesi commemorano la Nakba, ma contro il volere di Israele, perché Israele sa che a memoria deve essere selettiva, e quella palestinese non deve avere visibilità. Le commemorazioni della catastrofe non devono sciupare con la loro tristezza i festeggiamenti per la ricorrenza della nascita dello Stato che ha invaso la Palestina. Lo sa talmente bene che nel 2010 il suo parlamento, la Knesset, ha votato una legge che punisce i palestinesi con cittadinanza israeliana che commemorano la Nakba: la pulizia etnica ha le sue regole e il “memoricidio” è una di esse, solo così può essere dimenticata la sostituzione della popolazione autoctona con popolazione insediata al suo posto.

Ma una cosa Israele forse non riesce a comprendere e cioè che, seppure riuscirà a comprarsi o a sottomettere con la forza o a cacciare dalla Palestina il 99% dei palestinesi, quell’1% che resterà perché non ucciso, non comprato, non cacciato, sarà il suo tormento finché non avrà giustizia. E ormai la giustizia non è più soltanto nel diritto al ritorno, nell’avere uno Stato sovrano, o nel riconoscimento di eguali diritti in uno Stato che non sia discriminatorio, o nel riconoscere il diritto alla libertà, no, ormai, oltre a tutto questo, la giustizia esige che Israele venga condannato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ai sensi del Diritto internazionale e del Diritto Umanitario Universale.

La memoria della Nakba non sarà mai cancellata, neanche se Israele ormai la vieta nei libri di storia e i suoi sodali pensano di comprarla con qualche pugno di dollari, magari ricorrendo al “deal of the century” meglio espresso con la formula “Peace to prosperity”. Anche Israele qualche volta commette errori di valutazione: non ha pensato che non tutti gli uomini sono in vendita.

Patrizia Cecconi – Londra 15 maggio 2020