Sergio Ciancaglini e Nacho Yuchark, inviati speciali di lavaca, stanno percorrendo da alcuni giorni i territori delle comunità indigene che stanno bruciando a causa del fuoco doloso. Boschi, animali, persone che sopportano le fiamme, il fumo e la battaglia per sopravvivere.

Campi a cui è stato dato fuoco apposta per trasformarli in pascoli o campi di soia: questo è ciò che è in gioco nei prossimi mesi, il destino di una diversità da cui dipendono le sorti del pianeta. Ciò che brucia oggi fa male ma non da tregua a chi lotta non solo per spengerlo ma anche per farci capire che da quelle ceneri deve nascere una nuova coscienza.

Piccoli fuochi che, qua e là, si moltiplicano per migliaia di ettari.

Piccole comunità, qua e là, che lottano per spegnerlo.

Si vede l’immagine che ha descritto il leader  guaraní quando, al  festival Lollapalooza, a San Paolo, avvisò dell’arrivo del disastro: «Dicono che è molta terra per pochi indios, io dico che sono pochi indios per proteggere la vita del mondo intero».

Ecco come raccontano quel che hanno visto:

«Acre puzza d’incendio. Abbiamo visitato il popolo  Huni Kuin, 11.000 persone che vivono e sopravvivono nello Stato di Acre, Amazzonia.

A 5 kilometri da Río Branco dalla strada si vedeva funo. Per un sentiero siamo arrivati ad alberi che bruciavano per un fuoco appiccato volontariamente.

Non si può dimenticare quel suono.

E quell’odore.

Gli Huni Kuin continuano e non si rassegnano. Puntano a ricostruire la foresta o almeno gli ettari che sono stati bruciati.

I fazendeiros da parte loro non si rassegnano e puntano ai pascoli o alla soia, con fuochi rapidi.

Vivere un gorno i Amazzonia insegna dove potrebbe stare il futuro e dove l’inferno.

Per lo meno per quelli che non vogliono rassegnarsi a che inferno e futuro siano la stessa cosa».

Testo di Sergio Ciancaglini e foto di  Nacho Yuchark

Traduzione dallo spagnolo di Traduttori Pressenza