Il 6 giugno abbiamo presentato in anteprima a New York il nostro ultimo documentario, “L’inizio della fine delle armi nucleari”.  Per questo film abbiamo intervistato 14 persone, tutte esperte nei loro campi, che hanno saputo darci un’idea della storia e del processo che ha portato al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, e degli attuali sforzi per stigmatizzarle e trasformare il divieto in eliminazione.  Nell’ambito del nostro impegno a mettere queste informazioni a disposizione di tutti, pubblichiamo le versioni integrali di queste interviste, insieme alle loro trascrizioni, nella speranza che queste informazioni possano essere utili ai futuri registi, attivisti e storici che desiderino ascoltare le potenti testimonianze qui registrate.

Questa è l’intervista a Daniel Högsta, coordinatore della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, registrata presso i suoi ex uffici di Ginevra il 12 dicembre 2018.

Trascrizione

Raccontaci come si è arrivati al Trattato di Proibizione delle armi nucleari

Credo che invece di parlare di date e citazioni ci sia stato un ripensamento del dibattito sull’approccio umanitario, rispetto a un approccio incentrato sulla sicurezza delle armi nucleari, che tende a favorire argomenti come il numero di armi nucleari di cui abbiamo bisogno in un paese per preservare la deterrenza come fonte credibile di difesa nazionale.

Si tratta di un atteggiamento alquanto debilitante per gli attivisti e anche per gli Stati che vogliono partecipare al dibattito. Questo ci porta a una situazione in cui alcuni Stati hanno il controllo e possono parlare, mentre il resto del mondo dovrebbe sedersi, stare zitto, ascoltare in silenzio e gridare un po’ dalle retrovie.

Quindi questo ripensamento umanitario ha permesso alla società civile e agli Stati di assumere un ruolo di leadership, come hanno fatto in altre campagne: quelle delle bombe a grappolo e delle mine anti-uomo, che sicuramente avrete sentito citare da altri in molte occasioni.

Penso che la riformulazione sia stata una grande decisione, come è stata grande anche la capacità della campagna ICAN. Quando dico campagna non intendo solo ICAN, ma anche gli Stati che hanno partecipato, gli accademici, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), questo gruppo più ampio di persone. E quindi è importante trovare momenti per costruire e continuare lo slancio.

Le conferenze sull’impatto umanitario sono state gli esempi più significativi. È stata un grande incontro tra Stati. Sono state rivelate molte nuove prove e abbiamo ascoltato in modo molto commovente i sopravvissuti, gli Hibakusha e anche i sopravvissuti dei test nucleari.

Avere quei momenti nel tempo ha creato e costruito un senso di slancio, quando le persone hanno cominciato a rendersi conto che in realtà c’è un’altra strada da seguire.  Anche l’ONU come forum è stato molto utile a tal fine. Abbiamo tenuto diverse riunioni in seno all’Assemblea Generale, dove gli Stati si sono riuniti per formulare dichiarazioni congiunte sempre più forti sulle conseguenze umanitarie, nonché sulla necessità di un nuovo strumento per colmare la lacuna giuridica, come è stato chiamato.

Così nel 2016 abbiamo raggiunto una sorta di svolta con il gruppo di lavoro aperto, un gruppo che è stato istituito per identificare le diverse opzioni sul tavolo in grado di porre rimedio a questa situazione, per rompere lo status quo. In quel gruppo di lavoro aperto era chiaro che l’idea più efficace e condivisa era quella di un trattato di proibizione delle armi nucleari.

Altrettanto importante era l’idea che il trattato fosse qualcosa che poteva e doveva essere perseguito, anche se gli Stati dotati di armi nucleari rimanevano fuori dal processo.  Penso che questo abbia portato ai negoziati dell’anno successivo, dove lo slancio ci ha condotto a questo risultato. Ma vorrei concludere sottolineando l’importanza della società civile, dei governi e del mondo accademico. Perseguire uno strumento giuridico senza la partecipazione degli Stati che sono i principali responsabili dei danni causati dalle armi nucleari è qualcosa che dobbiamo continuare a fare, qualcosa di utile in termini di costruzione di una norma che riguarda sia la pratica che la teoria delle armi nucleari.

Cos’è successo quando hai ricevuto la notizia del Premio Nobel per la Pace?

In effetti, seguivamo in streaming la trasmissione della cerimonia del Premio Nobel – l’annuncio, la conferenza stampa – perché le armi nucleari erano già state oggetto di molte notizie l’anno scorso e ICAN era già stata nominata per il Premio Nobel per la Pace.  Quel giorno c’erano giornalisti qui in giro ad aspettare, ma noi non prendevamo sul serio la cosa. Pensavamo che sarebbe stato un altro di quegli anni, ma sapevamo che le armi nucleari erano state presenti nei notiziari. Quindi ci aspettavamo che il premio andasse a un’organizzazione legata al nucleare, magari la Commissione Preparatoria dell’Organizzazione del Trattato per la messa al bando totale dei test nucleari (CTBTO), o forse ai negoziatori dell’accordo con l’Iran.

Volevamo quindi essere pronti a fare una dichiarazione al riguardo. Ovviamente, non avevamo idea di essere al centro dell’attenzione, per così dire. Quindi 10 minuti prima delle 11 abbiamo ricevuto la chiamata. Ho alzato il telefono – è un vecchio telefono molto brutto, con pulsanti appiccicosi – e quando ho risposto ho sentito una voce molto forte con un accento norvegese, che era Olav Njolstad del Comitato Norvegese del Premio Nobel per la Pace, che mi ha detto: “Penso di avere buone notizie. Devo parlare con Beatrice Fihn.”

Allora ho passato il telefono a Beatrice Fihn. In quel momento non pensavo ancora che fosse una cosa seria. Pensavo fosse un giornalista che chiedeva una reazione, ma poi ovviamente ho visto il suo volto sciogliersi e congelarsi, e oh mio Dio, oh mio Dio!

Così in quel momento è diventato evidente. Beh, non dovrei dire che è diventato proprio ovvio, pensavo ancora che potesse essere una bufala o qualcosa del genere. Così ho detto: “Nessuno emetta comunicati stampa!”.

Poi il nostro sito web – alle 11 in punto, una volta fatta la dichiarazione – è crollato. Quindi non ho potuto pubblicare il comunicato stampa che avevamo preparato in fretta e abbiamo dovuto metterlo prima su Facebook.

È andata così quella follia e poi abbiamo avuto dieci minuti di frenesia – penso che ci sia un video di questo – camminavamo freneticamente in ufficio e ci chiedevamo: “Oh mio Dio, cosa dovremmo fare? Ok, dobbiamo tenere una conferenza stampa. Dobbiamo tenere una conferenza stampa, è quello che fanno le organizzazioni quando si trovano di fronte a questo tipo di cose”. Ma poi il telefono ha iniziato a squillare. C’erano giornalisti fuori dalla stanza, che sono entrati quasi con la forza e hanno scattato alcune foto.

E’ stato molto emozionante, ovviamente. È stata una giornata di follia – era un venerdì – che non si è fermata fino al lunedì successivo.

Che differenza ha causato nel vostro lavoro e nella campagna?

Direi che in termini del lavoro che facciamo e di ciò su cui ci concentriamo e a cui diamo priorità non è cambiato molto. Le nostre priorità rimangono le stesse, i progetti che avevamo forse li avremmo realizzati comunque, ma questo eleva tutto. Ci offre molte più opportunità di avere incontri con le persone.

Ovviamente la nostra interazione con i media è migliorata enormemente, ma tutto è aumentato. Ma è cambiato la nostra forma come campagna? No, penso che lo spirito di ICAN sia sempre lo stesso. E’ una campagna piuttosto grande, con molte organizzazioni partner in tutto il mondo; molte di esse lavorano in contesti piuttosto difficili, come negli Stati dotati di armi nucleari, dove hanno la sensazione di insistere senza ottenere i risultati tangibili che speravano e si sentono ai margini, soli in un paese dove le armi nucleari non sono affatto all’ordine del giorno, e si chiedono quanto impatto questo stia realmente producendo. Vale la pena cercare di convincere il mio governo a unirsi alla lotta contro le armi nucleari se non gliene frega niente?

Penso che sia una grande conferma per il lavoro che questi attivisti stanno facendo in ogni contesto, penso che sia la cosa più bella che ho sentito subito dopo, e mi viene la pelle d’oca solo a pensarci adesso, sono le celebrazioni dell’intera campagna, dal Sudafrica al Kenya, in  Zambia e a Panama. Vedere in televisione i nostri attivisti e queste persone provenienti da tutto il mondo, che si sono fatti carico di questo incredibile momento, vedere riconosciuto il duro lavoro che hanno fatto nel corso degli anni, questa è stata la cosa più speciale.

ICAN come rete di organizzazioni

Vedo il nostro ruolo qui, voglio dire che siamo uno staff piuttosto piccolo qui a Ginevra e alcuni colleghi anche fuori Ginevra, ma il nostro ruolo è principalmente quello di aiutare e facilitare il lavoro che i nostri partner stanno svolgendo, perché è il lavoro nelle capitali che fa una grande differenza. Soprattutto ora che il trattato è stato aperto alla firma ed è in fase di entrata in vigore, forse è ancora più importante che il lavoro che un tempo si svolgeva in centri diplomatici come le Nazioni Unite qui a Ginevra o a New York in questo momento si stia svolgendo nelle capitali. Dobbiamo convincere gli opinionisti e quelli che prendono le decisioni, quindi a mio avviso il valore della rete sta nella forza delle organizzazioni partner.

Raccontaci della campagna di ICAN “Le città sostengono il TPAN”

“Le città sostengono il TPAN” è un impegno che le città possono assumere per sostenere il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari e chiedere ai loro governi di aderire.

Una tendenza generale che abbiamo visto è che i cittadini di tutto il mondo, non solo per quanto riguarda le armi nucleari, ma in tutto lo spettro politico, sono piuttosto insoddisfatti dei governi nazionali. In alcuni contesti questa frustrazione ha preso una brutta piega, ma una delle cose interessanti che stanno emergendo è la maggiore risonanza dei governi locali, dell’attivismo locale, dell’impegno con le amministrazioni comunali e la rilevanza che questo può avere.

In passato era una questione secondaria. La politica locale non è poi così eccitante, ma penso che ora stia cambiando con questo approccio organizzativo comunitario. Le amministrazioni locali possono anche avere un impatto in termini di costruzione di un movimento a livello nazionale.

Credo che succederà anche per le armi nucleari, giacché le città sono i loro principali bersagli. Le armi nucleari sono progettate per distruggere le città, per avere il massimo impatto, per annientare quante più vite umane e quante più infrastrutture possibili.

Ha senso che le città abbiano una responsabilità, che le amministrazioni, i sindaci e i funzionari comunali abbiano la responsabilità nei confronti dei loro cittadini di esprimersi su questo problema. È loro compito vigilare sul benessere della loro gente. Quindi, quando si tratta di una questione come quella delle armi nucleari, ha senso che anche loro facciano sentire la loro voce, essendo i più stretti rappresentanti del loro popolo, parlando con il governo nazionale ed esprimendo la loro partecipazione in qualche modo, che si tratti di un paese in possesso di armi nucleari o di qualsiasi altro paese. Ci sono dozzine di persone che sostengono l’uso delle armi nucleari attraverso la partecipazione alle cosiddette alleanze a ombrello nucleare e le amministrazioni comunali di quei paesi hanno la responsabilità di dire: “Questo non è accettabile. Non agiranno in questo modo né in nome nostro, né in nome della nostra città”. Quindi penso che sia qualcosa che approfitta di una tendenza di questo momento e che ha senso anche solo a causa della natura delle armi nucleari.

Come coinvolgere le persone nelle iniziative per la messa al bando delle armi nucleari?

Ci sono diversi modi. “Le città sostengono il TPAN”, di cui stiamo parlando, è una delle chiavi. Mettiti in contatto con il tuo governo locale. Scopri chi è il rappresentante del tuo collegio e chiedigli se ha sentito parlare di “Le città sostengono il TPAN”.  Chiedigli se la città ha una politica sulle armi nucleari. Stiamo assistendo a un numero sempre maggiore di città che approvano mozioni o dichiarazioni solenni a sostegno del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari e chiedono al loro governo di aderire al Trattato. È una cosa che gli amministratori comunali possono fare ed è qualcosa che la gente può fare, perché questi amministratori comunali devono in qualche modo relazionarsi con la gente.

Quindi è qualcosa che quasi tutti possono fare, perché “Le città sostengono il TPAN” non riguarda solo le grandi città, ma anche per le cittadine e gli altri comuni.

A livello nazionale, c’è anche la possibilità di raggiungere i parlamentari.  Esiste quello che viene chiamato Impegno Parlamentare, firmato da più di 800 parlamentari di tutto il mondo. Ed è un impegno a lavorare affinché il trattato entri in vigore in quel paese.

Tutti hanno un rappresentante locale e un rappresentante nazionale. Ognuno può scrivere al proprio senatore o deputato ovunque si trovi e convincerlo a sostenere l’impegno parlamentare. E anche quest’ultimo punto: le armi nucleari sono un’impresa estremamente costosa e questi soldi non provengono solo dai governi, ma soprattutto da banche e istituzioni finanziarie.

Attraverso la collaborazione della nostra organizzazione partner PAX, ICAN pubblica ogni anno il rapporto Don’t Bank on the Bomb, uno studio sorprendente che rivela una mancanza di trasparenza nel modo in cui le istituzioni finanziarie e le banche convogliano il denaro nelle grandi aziende che producono, sviluppano e sono coinvolte nella modernizzazione delle armi nucleari, come pure nello sviluppo di idee su nuove armi nucleari. Gli Stati Uniti hanno recentemente parlato di armi nucleari più “utilizzabili”, che è di per sé una prospettiva orribile.

Pertanto, attraverso questa relazione, i cittadini possono rivolgersi alle loro banche e chiedere loro come sono coinvolte e incoraggiarle a essere più trasparenti, chiedere in quali società stanno investendo e anche incoraggiarle a ritirare i loro soldi dalle istituzioni che sviluppano armi nucleari.

Queste sono tre cose a cui quasi tutti possono partecipare, che siano o meno attivisti esperti.

Qual è la tua motivazione?

Stando in ICAN ho imparato a concentrarmi sulle piccole vittorie, le piccole vittorie durante tutto il processo, e vederle come se appartenessero a un percorso.

Una cosa molto importante di ICAN è il nostro approccio determinato rispetto al TPAN. Non si tratta solo di arrivare all’entrata in vigore del trattato e poi lasciare che funzioni da solo, ma di unire tutte le singole vittorie.

Così contano ogni impegno, ogni impegno parlamentare che viene firmato, ogni città che si unisce a “Le città sostengono il TPAN”, ogni e-mail di un funzionario governativo che prende decisioni e risponde alla vostra domanda, dove ottenete nuove informazioni che potete condividere con una rete più ampia. Ognuna di queste cose si unisce alle altre per creare uno slancio, ed è così che faremo entrare in vigore il trattato ed è così che useremo il trattato per cambiare le politiche reali.

Quindi concentrarsi sulle piccole vittorie è incredibilmente importante. A volte penso che l’apatia riguardo alle armi nucleari derivi dal fatto che la gente lo vede come un problema enorme, qualcosa che è sempre esistito, qualcosa che non cambierà mai. È quello che sento costantemente, non solo dai governi, ma purtroppo da molti dei miei amici, a volte, in questi governi.

Ma la politica cambia continuamente. Siamo in un clima politico che sarebbe stato totalmente impensabile molti anni fa e che non deve essere solo negativo. Non deve essere solo il lato brutto che abbiamo visto in molti paesi. Possono anche esserci cambiamenti positivi e rapidi in questioni su cui per molto tempo abbiamo pensato fossero intransigenti e le armi nucleari fanno parte di tutto questo.

Traduzione dall’inglese di Silvia Nocera