Ieri è morto Francesco Saverio Borrelli, una carriera giudiziaria lunga 40 anni, principalmente incentrata nel Tribunale del capoluogo lombardo, dove è stato prima giudice e Presidente della sezione del Tribunale di Milano e poi consigliere della Corte d’appello. Nel febbraio 1992, con l’inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio, con Borrelli iniziò l’era di tangentopoli di cui diresse il pool di magistrati che indagò sullo scandalo politico di Mani pulite insieme ad Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo e si segnalò come uno dei magistrati più determinati: fu lui a spedire al leader socialista Bettino Craxi il primo avviso di garanzia.

Accompagnò il corso delle inchieste di Mani pulite anche dopo il crollo della Prima Repubblica, che alle cronache di fatto avvenne con la prima elezione a Presidente del Consiglio di Silvio Berlusconi. Sua la frase, ripresa dal discorso di Vittorio Emanuele Orlando dopo la disfatta di Caporetto, “resistere, resistere, resistere” riferendosi alle riforme volute dal governo Berlusconi.
Si sa che col senno di poi si giudica male, eppure Borrelli e il suo pool di Mani Pulite rappresentarono la fine della Prima Repubblica, la stessa che fin da subito dopo la seconda guerra mondiale aveva traghettato l’Italia fino alla caduta del blocco sovietico avvenuta nel 1991, l’anno prima dell’inizio di Tangentopoli e di Mani Pulite.

Nonostante tutto, Borrelli lascia di sé un giudizio contrastato, non tanto su quello di magistrato, bensì sul ruolo storico che ha avuto in questo paese. Alcuni affermano che a suo modo “abbia guidato una specie di colpo di Stato, soppiantando con Tangentopoli, un’intera classe politica”, quella della 1° Repubblica. Altri affermano invece che Borrelli “ha fatto la storia del Paese”.

Senza voler entrare nel merito del giudizio, perchè ovviamente non è né la mia funzione né lo scopo di queste riflessioni, ciò che invece a mio parere è molto più interessante sono gli interrogativi in senso storico sul ruolo che svolsero per l’italia gli anni legati a Tangentopoli.

Nel 2011 in un’intervista a “Il Giorno”, Borrelli dichiarò: “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”.
In seguito Borrelli chiarì che si trattava di una battuta, anche se sembrava essere più un’unghiata venata di ironia e amarezza. “La mia voleva essere, ovviamente, una battuta. Non devo chiedere scusa a nessuno per aver fatto il mio dovere di magistrato” – aggiungendo a chiarimento – “La differenza fondamentale è che, allora, chi era colto con le mani nel sacco si vergognava. Oggi non si sa cosa sia la vergogna”.

Se tali domande e interrogativi tra amaro e faceto se li è posti anche Borrelli che fu uno dei protagonisti di quegli anni, allora è giusto e sacrosanto che in chiave storica ci si pongano anche noi.

Per una coincidenza di quelle beffarde scritte dalla storia, il 20 luglio 1993, lo stesso giorno della morte di Francesco Saverio Borrelli, 26 anni prima moriva Gabriele Cagliari, trovato morto nelle docce del carcere di San Vittore. Gabriele Cagliari, uno dei suicidi più eccellenti del periodo di Tangentopoli.

Siamo in piena Mani Pulite: Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni dal 1989 al 1993, arrestato per presunte tangenti il 9 marzo 1993, contestato il suo ruolo nella valutazione di Enimont fatta dall’Eni in fase di acquisizione.

Siamo nel pieno delle inchieste per corruzione della politica. Il 15 luglio, alla fine di un nuovo interrogatorio, il pubblico ministero Fabio De Pasquale aveva mostrato l’intenzione di scarcerarlo, ma poi ci ripensò. Poco dopo Cagliari si uccise. Il 20 luglio 1993 l’ex presidente di ENI viene ritrovato morto nelle docce del carcere di San Vittore, dove aveva trascorso quattro mesi di carcerazione preventiva. Secondo la ricostruzione si uccise soffocandosi con un sacchetto di plastica. La vicenda presentò contorni pochi chiari. Sul corpo furono trovate contusioni che gettarono un’ombra di dubbio sul suicidio. Inoltre alcuni testimoni, fra poliziotti penitenziari e compagni di cella, raccontarono che il sacchetto era ancora gonfio quando Cagliari fu ritrovato, lasciando così il sospetto che fosse ancora in vita. Giallo anche sulle lettere che avrebbe spedito alla famiglia per giustificare il suo gesto, che i familiari avrebbero ricevuto una settimana prima della morte.

La rete di corruzione che attraversava la politica della 1° Repubblica era un sistema di gestione ben radicato e ramificato, che contrariamente alla classe politica che la rappresentava, non solo è sopravvissuta, ma ha anche prosperato, perché come affermato dallo stesso Borrelli tutto ciò che venne dopo la 1° Repubblica non è stato e non è certo migliore, anzi.

Forse, senza nemmeno rendercene conto, è  in quell’epoca che si creò una profonda frattura che ci ha ulteriormente allontanato da una qualsiasi possibile soluzione. Perché, se ci si riflette bene, è proprio in quegli anni che è nato il concetto di “giustizialismo”, figlio distorto della spettacolarizzazione della giustizia stessa, le fughe di notizie non autorizzate, ma poi spesso usate in modo strumentale, oppure date in pasto a un popolo urlante assetato di giustizia. Un sistema sociale che dovrebbe essere basato sul concetto di giustizia, ma che in realtà adesso si è trasformato in giustizialismo.  Gli ultimi anni che abbiamo attraversato e stiamo ancora attraversando sono intrisi di strumentalizzazioni che ha deliberatamente operato la politica, usando a turno la spettacolarizzazione della giustizia per ottenere maggiori consensi, o per depotenziare gli avversari; un modo di operare questo che è stato portato avanti a turno, da tutte le forze politiche di volta in volta scese in campo, e che purtroppo a mio parere, più che reale giustizia, ha prodotto un clima di giustizialismo fai da te ormai diffuso, qualcosa di cui ben se ne vedono le conseguenze gettando le basi per, il “non dialogo”, il “tifo politico estremizzato”,  il fango tirato a turno da una o da più parti politiche in campo, l’idea dell’uso di una giustizia che sia possibile piegare a proprio uso e consumo, o che possa essere tirata per la giacca, tanto da poter essere strumentalizzata da una fazione politica oppure da un’altra, in fondo, un po’ come accadeva nei tempi medievali coi Guelfi e i Ghibellini.

Forse è stato allora, con gli anni di Tangentopoli, senza renderci conto, l’inizio di una certa deriva che ci ha portato in esatta direzione opposta alla risoluzione del nostro problema di fondo legato alla giustizia, ovvero, combattere ancor più che le persone, un sistema ben radicato, un modo di pensare e d’operare a tutti i livelli, una pratica che è specchio stesso d’una certa nostra cultura, dalla quale almeno come Paese, non siamo mai riusciti a liberarci. All’interno di un sistema di regole non dichiarate ma sempre praticate, e che vede marcio il cesto stesso, ha ben poco senso cambiare le mele, perché in poco tempo qualsiasi mela che anche per poco vi soggiaccia, sarà difficile rimanga integra e non si deteriori.

Allo scopo di comprendere meglio quegli anni di Tangentopoli e delle inchieste, per guardarli anche da un’altra prospettiva, non certo per difendere la rete di corruzione della 1° Repubblica, la quale, nostro malgrado ha comunque prosperato radicandosi ulteriormente, fino a diventare ai giorni nostri pratica quasi d’uso comune. Ma per capire che ben più di qualcosa allora ci è sfuggito, crediamo sia significativo rileggere una di quelle lettere che Gabriele Cagliari inviò alla sua famiglia il 10 luglio 1993, dieci giorni prima della sua morte:


“Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti: sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna.La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.
Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto.

Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta d’identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare.
Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti.
Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare.

L’obbiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi della opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”. Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro “ambiente”.
La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e loro complici intendono mettere le mani.

Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario.

La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente.

Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima.

Qui dentro ciascuno è abbandonato a stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia; la gente impigrisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita.

Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima.

Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia.

Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere.

Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti ormai incapaci di dibattere o di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica.

Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere la guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire. Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiano o addirittura dormono durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di Camera di consiglio.

Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti.

L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo.

Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione.
Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. E’ una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta.
La responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e mie sono le conseguenze. Esiste certamente il pericolo che altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi. Affidatevi alla mia coscienza di questo momento di verità totale per difendere e conservare al mio nome la dignità che gli spetta.
Sento di essere stato prima di tutto un marito e un padre di famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’ più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in alto questo paese nella considerazione del mondo.

Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono per questo addio con il quale lascio per sempre.

Non ho molto altro da dirvi poiché questi lunghissimi mesi di lontananza siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini.  […]
A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione.
Non ho alternative.

Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste o felice, conservi le ceneri fino alla morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare. Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre. […] Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme per l’ultima volta.
Il vostro sposo, papà, nonno, fratello
Gabriele”


Con questa lettera di addio, 26 anni fa moriva in carcere Gabriele Cagliari. Al di là della sua colpevolezza o meno,  denunciò prima con questi scritti e poi con la sua morte molte storture già presenti allora, sia nel sistema giudiziario che in quello carcerario. Moltissime le domande che sorgono leggendo oggi questa lettera.

Ieri ci ha lasciato invece Francesco Saverio Borrelli. Alcune delle sue dichiarazioni, specie quelle intrise d’amarezza in cui si chiedeva se ne fosse valsa la pena, ci fanno capire che altrettanto numerose e importanti erano le domande e gli interrogativi che anche Borrelli si poneva.

Oggi e in futuro restiamo noi come Paese, con le sue istituzioni, con le sue tante contraddizioni, le tante domande, ma anche con tante potenzialità, noi come cittadini, che in fondo a pensarci bene siamo motore e base di tutto. Noi che forse, se almeno sapremo risolvere parte di queste tante domande e interrogativi, allora arriveremo a comprendere anche che un certo sistema di cose, specie quand’esso è ormai ben radicato a tutti i livelli, politico, istituzionale, e sociale, non lo si combatte eliminando dal cesto una mela marcia, magari mostrandola poi in pubblico al popolo urlante, così da placare la sua sete di giustizia.  Se prima non cambia  la nostra cultura sociale e umana, il nostro sitema di relazioni a tutti i livelli, un certo modo di pensare e di operare sbagliato che è diventato consuetudine, ebbene, non basterebbero 1000 mani pulite per proteggerci da ciò. Non si combatte né si sconfigge nulla se prima non si modifica la nostra cultura di fondo, la stessa dove questo sistema vive, prospera e trova alimento. E nemmeno si ha la possibilità di modificare alcunché credendosi del tutto fuori e immuni da un determinato modo di pensare, da una certa cultura di fondo. Qualsiasi sistema lo si combatte invece togliendogli alimento, cambiando quei comportamenti stessi sbagliati, che sono diventati consuetudine e nutrimento della stortura.

Alla base della riuscita o meno di una società anzitutto ci sono le persone, la loro cultura umana e sociale, le loro regole scritte e non, e i loro comportamenti, ovunque esse si vengano a trovare e qualsiasi ruolo rappresentino, tenderanno sempre a replicare ciò che hanno in precedenza imparato.  Igor Sibaldi a proposito del cambiamento scrisse  una cosa che forse racchiude in sé un concetto sociale molto interessante:  “Energia è la capacità di un sistema di modificare lo stato di un altro sistema con il quale interagisce”