Che cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia dopo la laurea in Psicologia dello Sviluppo e della Comunicazione?

Avevo già fatto volontariato, ero stato in Sudamerica e mi interessava fare il tirocinio all’estero. Il professore con cui mi sono laureato mi ha passato un contatto con l’associazione Psicologi per i popoli di Torino con cui ho avuto l’onore e il piacere di collaborare in Chiapas e in Salvador.

Di cosa ti occupavi?

A Santa Marta in Salvador e ad Altamirano nel Chiapas mi occupavo assieme ai membri dell’associazione torinese di stendere mappe di comunità individuando le diverse risorse umane, i punti pericolosi e quelli di aggregazione, di analizzare le realtà psicosociali presenti sui territori e intervistare persone con ruoli socialmente attivi. Sempre in questa prima fase, passata assieme ai membri dell’associazione torinese, ci siamo occupati di tenere dei corsi di formazione a delle infermiere di un ospedale e a gruppi di persone sensibili ai temi della salute mentale. L’idea era quella di formare un gruppo operativo di promotori di salute mentale che attivassero così risorse già presenti sul territorio e costruissero una rete sociale preventiva rispetto a diverse problematiche psicosociali.

La seconda fase l’ho passata invece a stretto contatto con la popolazione locale e mi sono occupato di approfondire la cosmovisione indigena tzeltal e conoscere le realtà psicosociali presenti nelle comunidades (ossia villaggi) indigene rurali sparpagliate sul territorio. A volte le persone mi chiedevano direttamente di visitarle a casa loro a causa di problematiche legate al disagio sociale o alle realtà psicosociali presenti. Dopo una serie di inviti ricevuti a visitare famiglie, e dopo avere costruito una relazione di fiducia con i locali, mi sono inoltrato nelle profondità dei quartieri. Grazie all’invito, al consenso e al lavoro spalla a spalla con le persone delle diverse zone periferiche del paese, abbiamo costruito dei progetti sociali volti a coinvolgere diverse fasce d’età, a promuovere la cooperazione e il contatto tra loro e a costruire una rete sociale che prevenisse problematiche psicosociali come il suicidio, l’alcolismo, la tossicodipendenza, le violenze familiari etc…

Insieme alle persone si scelgono i progetti da realizzare (per esempio un forno comunitario che aiuti a creare una rete sociale e spinga le donne a uscire di casa e a rendersi un po’ più autonome economicamente).  Io cerco di non imporre niente, ma piuttosto di praticare un “ascolto empatico” e di consigliare il dialogo. Cerco di fare prevenzione, di ragionare e spiegare la situazione, ma poi sono le persone che decidono. Poi mi dedico, fin dove possibile, al lavoro sull’identità indigena a causa della forte discriminazione e razzismo che affliggono queste realtà.

Successivamente ho cominciato a collaborare con un dottore, referente messicano della ONG Doctors for Global Health che mi ha coinvolto nelle realtà delle comunidades rurali zapatiste. Mi ha aiutato tanto a sviluppare una coscienza critica delle realtà che ci circondano e di me stesso. Assieme a lui mi occupo dei corsi di formazione a promotori di salute delle diverse comunità, corsi che durano più giorni.

Questo ti ha permesso di conoscere meglio la situazione del Chiapas?

Sì, senz’altro. Il dottore opera solo nelle comunità zapatiste (mentre io mi muovo anche nelle altre). Ora vivo in un a stanza in casa sua, che a causa della semplicità e dell’assenza di certe comodità mi spinge a chiedere da mangiare alle famiglie locali. Questa situazione mi ha permesso di approfondire la conoscenza delle dinamiche familiari e culturali e instaurare un profondissimo legame umano.

Ho avuto modo di conoscere in parte la realtà zapatista e, da quel poco che ho percepito, potrei dire che tentano di costruire un mondo diverso, anche se penso che la vera rivoluzione sia interiore; il mondo migliore penso si debba cominciare a costruirlo dentro di noi, per potersi muoversi verso l’esterno con consapevolezza. I compas, così vengono chiamati gli zapatisti, tentano di essere indipendenti dal sistema capitalista messicano; le loro comunità ogni tanto vengono sgomberate e in alcune vi sono tensioni costanti con le comunità non organizzate. Le loro cliniche e scuole non sono riconosciute dallo Stato messicano, mentre le comunità non autonome ricevono fondi, progetti e materiali dal governo.

Sono quasi tutti contadini e le condizioni igieniche sono scarse, con acqua contaminata, casi di denutrizione, malaria e tante altre problematiche sempre di origine sociale.

Com’è stato l’inserimento nella comunità?

Ho imparato in parte una lingua maya del posto, il tzeltal, perché volevo capire il contesto locale al di là delle barriere culturali, ma all’inizio non ho potuto evitare un certo giudizio dovuto al mio sguardo occidentale. Imparare una lingua per me è sinonimo di conoscenza della cultura locale; inoltre si imparano a utilizzare altri strumenti, altri schemi di pensiero con cui percepiamo la realtà circostante e il nostro mondo interno. Insomma si imparano altri modi di pensare.  La curiosità, l’interesse e l’apertura mi hanno aiutato ad entrare nella loro cultura, ad adattarmi e a lavorare con loro. Così man mano si è stabilita una relazione di fiducia, come accennavo prima, che mi ha portato a inserirmi sempre di più, tanto che ora faccio parte dell’assemblea allargata della Teologia India Mayense. Ho potuto conoscere figure legate alla medicina tradizionale, i curanderos, huesoros, hierberos, parteras etc e contribuire a un’opera di riscatto della loro cultura. Ora continuo parallelamente ai progetti attivi nel paese, le attività con i promotori di salute, dedicandoci però più tempo rispetto a prima.

In cosa consiste questa attività?

I promotori sono figure scelte dalla comunità, uomini e donne che visitano le persone a casa. Sono loro a decidere l’argomento dei corsi a seconda delle necessità. Dormiamo a casa loro e questo contatto profondamente umano mi ha aiutaTO a vincere le barriere che ho dentro me stesso e a capire che le divisioni, i razzismi, le frontiere esistono perché sono dentro di noi ed esisteranno finché non troveremo le radici e le trasformeremo nel loro opposto.

Che cosa ti  ha dato e ti dà questa esperienza?

Una grande crescita interiore, un’evoluzione spirituale, la possibilità di sentirmi utile, di aiutare gli altri e di essere una persona migliore, una persona felice. Per me questo è un progetto di vita, l’espressione dei miei valori più profondi di amore, cooperazione e umanità ed è anche un dovere. Dobbiamo fare rete tra chi condivide questi valori; solo così – e non con la delega – si potrà creare un mondo migliore.

Le foto e le relative didascalie riportate qui di seguito completano l’intervista con spiegazioni e approfondimenti. 

Momento di incontro tra gente delle comunità tzeltales attorno all’altare Maya, rappresentante la cosmovisione indigena Tzeltal. L’altare è diviso in quattro sezioni contraddistinte dai quattro colori che rappresentano i quattro punti cardinali e simboleggia il collegamento tra la Terra e il Cosmo e l’azione del dare e del ricevere. Al suo interno ci sono i frutti della terra che vengono offerti al Cosmo, al Dio cattolico e agli Antichi; questi ultimi, rappresentati dal suono delle sonajas, partecipano alle assemblee e tornano a portare i loro consigli ai partecipanti degli incontri. Il sincretismo con la cultura cristiana è evidente nella presenza del crocifisso e della Bibbia e nelle invocazioni durante il rituale di aperture e di chiusura delle assemblee. Sempre presente negli altari Maya è la foto di jtatik Samuel, ex vescovo della diocesi di San Cristobal, strenuo difensore dei diritti dei popoli originari. Le diverse pietanze vengono offerte dalla comunità ai partecipanti all’assemblea.

Gruppo di indigeni tzeltales partecipano ai corsi di formazione per promotori di salute mentale di Altamirano. 

Famiglia di contadini indigeni tzeltal. L’anziana curandera del barrio Candelaria è una figura di riferimento per molti ammalati e afflitti di diverse comunità. Suo marito è uno dei principales del movimento autonomo, figura che riveste un ruolo sociale rilevante. Senza la benedizione e l’orazione dei principales le assemblee non possono né iniziare né concludersi. Il figlio Carlos combatte contro il lupus che lo debilita da anni grazie anche all’amore di sua moglie Tenchi.