Che cosa sceglierebbe ciascuno di noi tra la violenza che rischia di abbattersi sulle decine di persone barricate dentro la nave commerciale Nivin e la riconsegna alle carceri libiche, con la certezza di tornare a subire torture, fame, stupri, abusi che non si riesce neppure a descrivere?

I 94 profughi, in gran parte provenienti dall’Eritrea e dal Sudan, nazionalità che in Europa incontrano un altissimo numero di riconoscimenti della protezione internazionale che si da a chi è vittima di persecuzioni o di violenze gravi, sembrano avere scelto.

Dal 10 novembre rifiutano di sbarcare nel porto di Misurata, dove è ancorato il cargo Nivin, che li aveva soccorsi due giorni prima in mezzo al mare riportandoli in Libia per obbedire agli ordini delle autorità libiche, italiane e maltesi. Solo 14 persone, una donna col suo bambino di pochi mesi e dei minori, hanno alla fine desistito e sono sbarcati per essere nuovamente rinchiusi nei centri di detenzione libici.

Tutti gli altri non vogliono arrendersi perché “la Libia è un paese troppo pericoloso”, come hanno detto ai pochi operatori umanitari che hanno potuto salire a bordo; un paese dove hanno già sofferto troppo, essendo stati tante volte catturati in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportati nei centri chiusi. Molti di loro in quei centri hanno già perso un fratello, un amico. Preferiscono morire: “Porterete fuori da questa nave il mio cadavere, ma non posso tornare in Libia”.

Cosa farebbe ciascuno di noi? Non resisterebbe fino alla fine per affermare la propria dignità di essere umano, per tenere viva la speranza di avere una via di salvezza anche solo un minuto di più?

Ma di fronte alle scelte estreme che mai nessuno dovrebbe essere messo nelle condizioni di fare, si offrono solamente soluzioni estreme che mai nessuno dovrebbe essere messo nelle condizioni di subire.

I pochi operatori umanitari neutrali presenti in Libia temono a ore un bagno di sangue. Avendo opposto una forma di resistenza, i profughi rischiano infatti di essere trattati come pirati o terroristi, contro i quali ogni azione di forza può essere eseguita.

Di chi sarà la responsabilità se queste persone moriranno per resistere? Chi ha violato la legge? Di quale legge stiamo parlando?

Le autorità italiane sono state coinvolte nel caso fin dall’inizio, ordinando alla Nivin, “da parte della guardia costiera libica” (on behalf of lybian coastguard), di deviare dalla sua rotta, operare il salvataggio e contattare JRCC Libia attraverso lo stesso centralino di IMRCC (ovvero il centro di coordinamento italiano ubicato a Roma).

Mediterranea ne ha avuto conoscenza diretta grazie a una costante comunicazione stabilita con il Comandante e l’Armatore della Nivin. Il gommone soccorso, tra le altre cose, si è rivelato essere lo stesso segnalato per la prima volta la sera del 7 novembre da Alarm Phone e rispetto al quale la Mare Jonio aveva interpellato MRCC Roma, mettendosi a disposizione da Lampedusa per collaborare in eventuali interventi.

A causa di aberrazioni normative come il Memorandum Italia-Libia del 2017, o il riconoscimento di una zona libica di Search and Rescue (SAR) in cui il coordinamento delle operazioni è formalmente libico, l’Italia è riuscita a evitare fino ad ora condanne legali.

Ma la Libia non è un porto sicuro e riportare indietro le persone dalle acque internazionali in un posto in cui rischiano la morte o trattamenti inumani e degradanti, oltre a violare il diritto del mare, implica la violazione del principio di non respingimento.

La cattura, la detenzione e la tortura reiterata da parte dei libici di decine di migliaia di persone in questo ultimo anno e mezzo, inoltre, non sarebbero state possibili senza la consegna di motovedette, l’addestramento del personale, la legittimazione costante di autorità di un paese in guerra civile, trattato dall’Italia come se fosse un alleato stabile ed equilibrato.

Per ogni persona cui verrà fatto del male sulla nave Nivin saranno responsabili anche l’Italia e l’Europa, perché hanno messo questi uomini, queste donne e questi minori di fronte all’unica scelta tra la tortura e la morte.

L’unica soluzione è un’evacuazione immediata di questi profughi, permettendo loro di raggiungere in sicurezza l’Europa e liberando anche l’equipaggio della nave Nivin che ha solo obbedito agli ordini imposti e che si trova anch’esso ostaggio, da giorni, di una situazione  terribile e pericolosa.

Questo è l’intervento che chiediamo con forza, dalla piattaforma di mare e di terra di Mediterranea, al Ministero degli Esteri italiano e alle istituzioni e ai governi dell’Unione Europea. Prima che sia troppo tardi.

https://mediterranearescue.org