Intorno alle 18 del 14 agosto dello scorso anno le agenzie iniziarono a battere la notizia che il governo Gentiloni aveva deciso di rinviare l’ambasciatore in Egitto.

Una decisione apparentemente improvvisa, comunicata con un preavviso pressoché inesistente alla famiglia Regeni, alla quale in precedenza era stata promessa la massima condivisione di eventuali sviluppi nella posizione del governo italiano sui rapporti con l’Egitto.

Il ritorno a normali relazioni diplomatiche – salutato non a torto da media e istituzioni egiziane come un segnale di resa e, dal loro punto di vista, di rinsavimento – veniva ufficialmente motivato con due affermazioni: una falsa e l’altra indimostrabile in quel momento (e tuttora indimostrata…).

La prima: la collaborazione delle autorità giudiziarie del Cairo aveva fatto passi avanti e quindi andava in qualche modo riconosciuta. In realtà non c’era stato alcun passo avanti ed era del tutto ancora valida la ragione – esattamente, l’assenza di collaborazione della procura egiziana con quella di Roma – per cui l’ambasciatore dell’epoca era stato richiamato a Roma, nell’aprile 2016.

La seconda: il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto avrebbe sicuramente e ulteriormente favorito quella collaborazione, volta a individuare autori, mandanti e depistatori del sequestro di Giulio Regeni, avvenuto come sappiamo al Cairo il 25 gennaio 2016 e terminato col ritrovamento del corpo del ricercatore italiano, orrendamente torturato, il 3 febbraio.

Avrebbe fatto sfoggio di sincerità Angelino Alfano, Ministro degli Affari Esteri del governo dell’epoca, a usare la cinica e brutale schiettezza recentemente impiegata in un’intervista ad al-Jazeera dal Ministro dell’Interno Salvini: non è che possiamo rinunciare ad avere relazioni con l’Egitto in attesa che arrivi la verità per Giulio Regeni.

Cosa è successo nei mesi successivi? Dal punto di vista della collaborazione giudiziaria da parte della procura egiziana poco o nulla: è stato messo a disposizione un dossier di centinaia di fogli accatastati e scritti in arabo asseritamente contenenti informazioni sulle indagini compiute dalla magistratura egiziana (va sottolineato che, per recuperarli, è dovuta andare al Cairo l’avvocata della famiglia Regeni).

Poi sono stati consegnati i video delle immagini delle telecamere a circuito chiuso promessi sin dall’inizio. In quelle immagini avrebbero potuto trovarsi informazioni sugli ultimi minuti di Giulio Regeni prima di finire inghiottito nel vortice repressivo degli apparati di sicurezza del Cairo. Peccato che quelle immagini siano state sovrimpresse non si sa quante volte e che il materiale consegnato risulti incompleto e “mancante” proprio nei minuti decisivi.

Nello stesso vortice repressivo, nell’ultimo anno hanno continuato a finire difensori dei diritti umani, giornalisti, attivisti e oppositori politici. Due nomi su tutti, perché sono collegati a Giulio: Ibrahim Metwally, presidente dell’Associazione dei genitori degli scomparsi arrestato il 10 settembre, quattro giorni prima dell’arrivo dell’ambasciatore italiano, mentre si stava recando alle Nazioni Unite, su invito di queste ultime, per parlare dei desaparecidos egiziani; e Amal Fathy, nota attivista per i diritti umani e moglie di Mohamed Lofty, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, che sin dall’inizio ha fornito consulenza  legale alla famiglia Regeni.

Il nuovo governo pare mosso da un attivismo che non sappiamo dove porterà. Gli incontri ad alto livello sono frequenti e si fa in ogni occasione il nome di Giulio Regeni, come se fosse un atto dovuto. Tant’è che è accompagnato da preoccupanti espressioni di fiducia (a volte “fiducia cieca”) nella volontà del presidente al-Sisi di “risolvere il caso Regeni”, dal silenzio sul contesto di violazione sistematica dei diritti umani e da dichiarazioni sull’importanza strategica del partenariato tra Italia ed Egitto.

Il 14 settembre, a un anno dal ritorno effettivo dell’ambasciatore italiano al Cairo, racconteremo se nei prossimi 30 giorni vi saranno state novità.