Cristina Cattafesta è finalmente rientrata in Italia oggi, dopo 12 giorni di detenzione presso il centro di espulsione di Gaziantep, in Turchia.

Cristina aveva fatto ingresso nel paese giovedì 21 giugno, insieme a una delegazione di sei persone del Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane (Cisda), per svolgere il ruolo di Osservatrice Internazionale indipendente durante le elezioni politiche e presidenziali turche. La richiesta di svolgere questo ruolo proveniva da alcune organizzazioni della società civile e dall’HDP (Partito Democratico dei Popoli), che consideravano fondamentale il monitoraggio di un processo elettorale decisivo per il futuro del paese. Ha deciso di accettare, pur conoscendo la complessità della situazione e gli eventuali rischi correlati.

La delegazione è stata assegnata ai seggi della provincia di Batman, nella Turchia sud-orientale. Domenica 24 giugno, dopo aver verificato un seggio di Hasankeyf, intorno a mezzogiorno è stata arrestata nel distretto di Gercuş, per strada, da poliziotti in borghese che si sono rivolti direttamente a lei.

La mattina stessa aveva già subito due controlli: uno insieme agli altri membri della delegazione poco distante dall’albergo e l’altro presso il primo seggio da lei visitato, da sola con l’interprete.

La sera è arrivata la notizia che Cristina sarebbe stata trattenuta una notte presso l’ufficio della Procura della Repubblica con l’accusa di propaganda per un’organizzazione a scopo terroristico, in quanto sulla sua pagina facebook sono presenti delle foto che la ritraggono con alle spalle una bandiera del PKK. Foto scattate durante una manifestazione a Milano in difesa di Afrin, cittadina siriana assediata dall’esercito turco, in cui Cristina voleva dimostrare solidarietà a tutti quei civili massacrati, a quegli attivisti che combattono per la loro terra e per una società più giusta. Quel giorno si è battuta, come sempre, contro le ingiustizie, da quelle nel suo quartiere di Milano, all’Afghanistan, all’Algeria, alle donne maltrattate…

Infatti l’indomani è stata prosciolta da ogni accusa e liberata, ma solo per pochi minuti.

Ai giudici ha detto che non è un crimine pubblicare foto su facebook, dimostrando il suo carattere forte e sottolineando che la libertà di espressione è fondamentale e dovrebbe esserlo in uno stato democratico che si rispetti.

La sua pratica è stata poi repentinamente trasferita al Dipartimento per l’Immigrazione del Commissariato di Polizia di Batman, perché potesse decidere sulla sua espulsione; questo, a sua volta, ha rimandato la decisione ad Ankara. Alla fine è arrivato l’ordine di trasferimento presso il centro di espulsione di Gaziantep, un luogo in cui la permanenza non è definita: il tempo massimo registrato per uno straniero è di 440 giorni, quello medio tra i 30 e i 60.

Prima dello spostamento, chi era con lei ha potuto incontrarla per pochi minuti nella stanza in cui era trattenuta e ha ottenuto informazioni sulla sua detenzione: ha dormito su una sedia, le è stata consentita una sola chiamata, non le è stato permesso di lavarsi né cambiarsi, non è riuscita a mangiare per la tensione. Non voleva mangiare, Cristina, voleva essere libera, e lo ha detto chiaramente alla sua guardia.

A Cristina è stato consentito avere contatti con l’Italia solo una settimana dopo il suo arrivo a Gaziantep. Senza avere nessuna colpa, è stata accusata di un crimine che non ha mai commesso, da un governo che assume una deriva sempre più dittatoriale, giorno dopo giorno, come dimostra anche lo svolgimento di queste elezioni.

Il presidente ha scoraggiato l’accesso al voto nelle provincie a maggioranza curda, e dove l’opposizione avrebbe quindi vinto, per esempio accorpando i seggi di cinque villaggi in una scuola a 15, se non 30, chilometri di distanza. Una regione in cui il presidente non contrasta l’accesso dei militari ai seggi, nonostante la legge indichi che debbano stare all’esterno, a proteggere i seggi elettorali, non a intimidire gli elettori. In cui Erdogan non tutela l’accesso al voto di anziani e disabili privi di accompagnamento.

E lo dimostra anche ciò che è accaduto la sera delle elezioni quando, intorno alle 22, è giunta la conferma del superamento della soglia di sbarramento da parte dell’HDP, che ha dato il via ai festeggiamenti. Lo spazio predisposto straripava di persone che insieme cantavano canzoni curde, ridevano, urlavano e fotografavano un pezzo di storia che gli appartiene. Non è trascorsa nemmeno mezzora e il lancio dei gas lacrimogeni da parte della polizia disperde la folla che comincia a correre, con gli occhi pieni di lacrime e le vie respiratorie in fiamme.

Su viale Ataturk, la polizia ha caricato violentemente con gli idranti gli elettori del partito che camminavano, festeggiando, tra urla e risa. Tanto a lungo che la notte, ore più tardi, le case erano ancora pervase dall’odore pungente delle armi chimiche.

Forse sì, Cristina, in realtà una colpa ce l’ha: da sempre sceglie con fermezza da che parte stare, non riesce a stare in silenzio davanti alle ingiustizie e vuole guardare quello che vede con i suoi occhi.

È passibile, quindi, di accusa per coraggio, umanità, passione…

Ed è punita perché la sua presenza in Turchia è scomoda. Perché nei suoi occhi risiede la testimonianza delle continue violazioni dei diritti umani che il governo turco sta perpetrando su una parte del suo territorio, abitata da minoranze etniche discriminate, vittime di violenze ed abusi, emarginate dai discorsi in chiave ultra nazionalista del presidente.

“Il tuo impegno è quello di raccontare tutto questo e noi non lasceremo passare inosservato neanche questo episodio, anche se la nostra missione è diventata, poi, quella di riportarti a casa, libera”.

Con te.

Le tue compagne del CISDA