Nella tarda serata di ieri, 25 ottobre, era arrivata da Istanbul una notizia confortante: pur se ancora sotto processo per ridicole e infondate accuse di terrorismo, sette difensori dei diritti umani – tra cui la direttrice di Amnesty International Turchia, İdil Eser  – erano tornati a casa per la prima volta dopo tre mesi e mezzo di carcere, in attesa della successiva udienza del 22 novembre.

Oggi la notizia di segno contrario: Taner Kılıç, il presidente di Amnesty International, resta in carcere, a sua volta sotto processo e a sua volta raggiunto da un’accusa immotivata.

İdil Eser  e altri nove imputati (due dei quali erano stati già rilasciati su cauzione) devono rispondere di sostegno a organizzazioni terroristiche. Taner Kılıç di aver fatto parte del movimento di Fetullah Gülen, sospettato di aver organizzato il tentato colpo di stato del luglio 2016.

I 10 difensori dei diritti umani sarebbero stati presi “con le mani nel sacco”, intenti a cospirare e sovvertire, mentre in realtà stavano prendendo parte all’inizio di luglio a un innocentissimo seminario di formazione in un albergo pieno di turisti su un’isola al largo di Ankara.

La prova nei confronti di Taner Kılıç è se possibile ancora più bizzarra: avrebbe scaricato sul suo cellulare e poi usato l’app di messaggistica Bylock, utilizzata per le comunicazioni tra gli aderenti al movimento di Fethullah Gülen. Peccato che il fatto semplicemente non sia successo.

L’obiettivo delle autorità di Ankara è evidente: zittire ogni forma di dissenso. Hanno iniziato coi parlamentari, con i giornalisti e gli avvocati, ora proseguono coi difensori dei diritti umani.