All’inizio di quest’anno in molti ci chiedemmo il perché dell’avvicinamento degli Stati Uniti a Cuba.

Cosa ha realmente spinto il governo di Obama a muoversi verso la normalizzazione delle relazioni con Cuba?Moltissimi media descrissero quest’azione come un nobile sforzo, quasi un atto umanitario per aiutare Cuba ad uscire dal proprio decennale isolamento ed unirsi finalmente alla comunità internazionale.  “Un avanzamento di democrazia e libertà” titolavano i giornali.

Gli ultimi 50 anni di storia di politica estera statunitense però ci dicono altro. Ci insegnano che i governi USA non hanno mai fatto niente per niente, ci insegnano che hanno sempre basato le loro politiche con gli altri Stati su un rapporto tra dominante e dominato. I fatti ci raccontano un’altra storia, una storia fatta di colonizzazioni mediatiche ed economiche, di spoliazione storica, identitaria e culturale d’interi popoli. Almeno questa è la storia di quei paesi come il nostro che con le buone si sono assoggettati al predominio e alla colonizzazione economico-culturale statunitense.

Poi c’è anche un’altra storia, che in quest’ultimo mezzo secolo, ci viene insegnata dalla politica estera USA. E’ una storia che parla di colpi di stato, di governi regolarmente eletti e soppiantati da apparati militari o comunque da governi mai eletti, una storia talvolta fatta di bombe, di attentati, d’intimidazioni, di minacce, di vendita di fiumi d’armi, di sedizione, d’appoggio diretto o indiretto al terrorismo, ai macellai, a veri e propri criminali dell’umanità che hanno compiuto le peggiori nefandezze sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale e che, nonostante tutto, hanno goduto e godono tuttora dell’appoggio statunitense in quanto “amici”.

Infine c’è un’ultima lezione che c’insegnano i 50 anni di politica estera statunitense e occidentale, quella che recita che, ove non sia possibile arrivare agli obbiettivi tramite la colonizzazione mediatica, storica, economica e pseudoculturale, dove non siano neanche efficaci sedizione e governi fantoccio, si arriva allora all’intervento diretto. Intervento attuato tramite vere e proprie occupazioni o tentativi d’invasione in forza, come successo in Corea 1950, Indonesia 1958, Vietnam 1959, Cuba stessa tra il 1959 e il 1961, Guatemala 1960, Congo 1964, Laos 1964, Perù 1965, Cambogia 1967, Grenada 1983, Salvador anni 80’, Libano 1983, Kuwait 1991, Somalia 1993, Sudan 1998, Jugoslavia 1999, per arrivare ai giorni nostri con la guerra in Afghanistan e Iraq. Un totale di 222 anni di guerra su 239 dalla data di esistenza degli Stati Uniti d’America.

Ma allora adesso che cos’è successo? Perché il governo degli Stati Uniti cerca di riallacciare “pacificamente” le relazioni con quello di Cuba?

La verità è che nel 2015 non è più Cuba ad essere isolata e gli Stati Uniti a tendere una pietosa mano, ma è vero quasi esattamente il contrario. Ebbene sono gli Stati Uniti che al giorno d’oggi sono sempre più isolati, soprattutto moralmente e ideologicamente.

Per averne la conferma basta fare la conta dei voti durante le ultime votazioni dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.  Il famoso “Embargo USA” verso Cuba durato decine di anni con un fronte compatto e unitario che poteva contare su decine e decine di voti favorevoli,  alle ultime votazioni, già  a partire da due anni fa, ben prima dunque dell’apertura statunitense, la prosecuzione dello stato di Embargo verso Cuba, contava solo sui voti di USA, Canada e Israele, più alcuni Stati del pacifico meridionale.

Per arrivare alla storia delle ultimissime votazioni che hanno visto ben 188 (dei 193 membri dell’Onu), che hanno votato contro l’Embargo,  in due hanno votato contro (Stati Uniti e Israele) e in tre si sono astenuti.  Ma c’è un dato storico ancora più significativo, quello che si evince dalla Conferenza di Cartagena in America Latina. Conferenza che nel 2012 riuniva gli Stati del Nord America e del Sud America, dove è accaduto che Stati Uniti e Canada sono stati completamente isolati sulla proposta di non lasciare rientrare Cuba tra gli Stati partecipanti alle successive conferenze degli Stati americani.

Già all’epoca era abbastanza chiaro che, nella successiva conferenza di Panama, per intendersi quella di quest’anno, se gli USA non fossero stati disposti ad accettare la richiesta quasi unanime di riammettere Cuba fra gli Stati Panamericani, gli Stati Uniti stessi avrebbero rischiato in seguito di venirne esclusi. E’ proprio con questi presupposti di partenza che di fatto Obama è stato costretto a intraprendere pochi piccoli passi di riavvicinamento a Cuba.

Personalmente mi rallegra che tali passi, seppur piccoli, siano stati fatti, ma dobbiamo capirne bene le ragioni che sono molte lontane dal fine umanitario, all’epoca dipinto dai nostri organi d’informazione. Soprattutto dispiace che si sia ancora lontanissimi dal raggiungere degli importanti obiettivi che rappresenterebbero per davvero una reale apertura a “doppio senso di circolazione”.

Nella pratica mi riferisco al fatto che il Congresso USA mantiene ancora adesso il controllo sull’Embargo, il quale, da una parte prevede la richiesta del governo Obama mossa a Cuba, affinché unilateralmente la nazione cubana si apra agli Stati Uniti ma non prevede affatto il contrario ovvero che gli Stati Uniti si aprano a Cuba. Tuttora sono in essere restrizioni imposte agli accademici, a dottori, a intellettuali e a tutte le personalità cubane, che ancora oggi, non possono ancora viaggiare negli  States, per esprimere il loro pensiero, né tanto meno organizzare conferenze o incontri nella democratica nazione Nordamericana, per esporre come Cuba metta in pratica a giro per il mondo il concetto di cooperazione bilaterale.

Negli Stati Uniti non è ancora possibile parlare pubblicamente di Cuba, niente viene diffuso di ciò che la nazione cubana ha fatto in questi anni per elevare il livello culturale, d’alfabetizzazione e sanitario di tutto il Sud america, di parte dell’Africa e anche di alcuni Stati del Sud-Est asiatico.

Sono ancora in essere le vergognose restrizioni all’importazione di tutti i “prodotti cubani” non importa che siano essi culturali, materiali o intellettuali.

Allora mi domando, di che cosa hanno tanto paura gli Stati Uniti?

Com’è possibile che una nazione, realmente evoluta e democratica, possa temere un piccolo “staterello” come Cuba, il quale conta si è no un PIL che vale meno dello 0,5% di quello USA e una popolazione che numericamente rappresenta un trentesimo di quella statunitense?

E pur con tutti i problemi che ancora hanno a Cuba, com’è possibile non considerare i prodigiosi risultati ottenuti con poche risorse economiche, sia in campo medico sanitario, che nel settore dell’istruzione, che nella diffusione culturale? Com’è possibile che neanche una riga sia stata scritta sui giornali americani a proposito degli oltre 9 milioni di alfabetizzati, raggiunti nel mondo, tramite un metodo rivoluzionario a costo zero, elaborato da una minuta e dolce insegnante cubana? Come non vedere la forte spinta con cui Cuba ha giocato un ruolo da protagonista per l’indipendenza politica ed economica di tutta l’America Latina negli ultimi quindici anni?

In effetti sono fatti che fanno paura, molta paura, risultati da tenere all’oscuro ai più, processi di reale cambiamento che certamente vanno tenuti alla larga, specie in un paese come gli USA che parla di democrazia ma dove circa metà della popolazione non va neanche più a votare, in uno Stato che di fatto  segrega e discrimina ancora oggi larghe fette di popolazione di origine afroamericana e ispanica, una nazione che con tutto il suo paventato benessere che conta al suo interno circa 45 milioni di poveri, un governo, quello americano, che permette la vendita di armi nelle cartolerie sotto casa, che diffonde armi e morte per tutti e che pretende di risolvere la diffusione della violenza, applicando la pena di morte, la forma di violenza massima che uno Stato possa esercitare su un proprio cittadino.  Un governo che ha da pochissimo concesso un minimo di tutela sanitaria anche per i meno abbienti, quando a Cuba tutti vengono curati gratuitamente da oltre 50 anni, uno Stato che diffonde il “proprio concetto di democrazia” e cooperazione attraverso l’esportazione di milioni di tonnellate di armi, che opera la propria politica estera come descritto sopra durante gli ultimi 50 anni o che chiede apertura ma non ne dà alcuna.

Un impero economico che cerca di sopravvivere a se stesso imponendo diktat che ben poco hanno a che fare persino col “concetto di libero mercato”  oppure con trattati economici commerciali che la fanno in barba a tutte le normative, gli aspetti sanitari, democratici e persino le legislazioni degli Stati europei, vedi TTIP.

Ecco allora che ritornano  le domande…. Oggi come oggi, qual è la nazione sempre più isolata, Cuba oppure gli Stati Uniti?  Chi ha realmente sempre più bisogno d’apertura culturale e intellettuale, d’istituire veri processi di cooperazione, di abbandonare il concetto violento, mortifero e disastroso, legato al rapporto stabilito tra dominante e dominato? Chi ha la necessità di rinnovarsi, di rendersi meno impermeabile anche a livello ideologico, per evitare un sicuro collasso sociale, umano ed economico o in alternativa vivere in uno stato ormai cronicizzato di tensioni e di guerra non dichiarata, come quello che ultimamente stiamo vivendo?

Chi deve finalmente rimettere in discussione un modello di sviluppo che sta mangiando il pianeta e costringendo le generazioni future a far fronte a conseguenze ancora appena immaginabili a causa di decenni di disastri, miopia ed egoismo senza precedenti?

Ai posteri l’ardua sentenza….

Qualcuno potrà domandarsi del perché si parli tanto delle contraddizioni degli Stati Uniti e del mondo occidentale in genere e non di quelle di altri Stati.  Se ne parla perché, storicamente come occidente, abbiamo enormi responsabilità e in particolare gli USA più di qualunque altro Stato, avrebbero in se la possibilità di agevolare un processo di reale cambiamento storico e umano e non di ostacolarlo in tutti i modi,  come si sta facendo adesso.     

Infine ideologie a parte, non sarebbe tanto meglio dichiarare fallito anche il modello Neocon e Ultraliberista applicato con tanto cieco fanatismo negli ultimi venti anni dagli USA e dall’occidente al seguito?  Proviamo anche solo a immaginare che sollievo, da quale atroce peso verremmo immediatamente scaricati se un domani alla prossima conferenza delle Nazioni Unite venisse ammesso: “Signore e signori, ebbene sì, abbiamo fallito, dobbiamo ripensare insieme a un differente modello di sviluppo sociale, umano ed economico, perché questo ci sta portando solo all’autodistruzione.”   Già solamente con un semplice atto come questo, sentite quale profonda sensazione di liberazione ne avremmo tutti (fautori del modello neoliberista compresi….).

Ogni giorno, ogni nuova congiuntura di crisi che va ripetendosi da tempo immemore, potrebbe essere l’occasione giusta per archiviare per sempre una tragica pagina di storia. Una storia che per anni si è basata solo su rapporti di forza che prevedono dominanti e dominati, vincitori e vinti, schiavi e carnefici. Allora perché non provarci nemmeno a chiudere il capitolo di un’epoca che ormai ha fatto il suo tempo e che finora non ha mai visto donne e uomini realmente liberi, ma tutti prigionieri della stessa violenza, tutti vittime del medesimo principio di sopraffazione?

Mai come adesso è urgentissimo fare una sintesi, per una volta trovare la forza di mettere da parte i fallimentari schieramenti ideologici del secolo scorso, smetterla una buona volta di erigere bandiere di qualsiasi colore esse siano, col solo intento di coprire vergognosamente e giustificare le macerie umane e ambientali che dappertutto stiamo disseminando.

Accettare compassionevolmente che abbiamo fallito, lasciare andare, invece che sempre trattenere, cercare di trarre comunque il meglio dalla nostra comune storia, riscattare ciò che di buono c’è e c’è stato e ripartire con un piano di sviluppo sostenibile, comune, meno sofferente e soprattutto condiviso.  Appoggiarci al concetto universale che persino la moderna fisica ci sta dimostrando, un concetto che parlerebbe chiaro e forte dentro ognuno di noi, se solo facessimo un po’ di pietoso silenzio per ascoltarlo, tutto l’esistente che vediamo è unito, tutti sono in relazione gli uni con gli altri, la sofferenza, così come la felicità che viene prodotta nel prossimo, presto o tardi ci raggiungerà.

Smettiamola d’illuderci, perché sappiamo bene ormai che nessuna vera felicità, né la pace, saranno più possibili per alcuno, se a pagarne il prezzo dovranno essere sempre altri.

E ancora, domandiamoci che senso abbia parlare di pace a senso unico, di crescita economica, di confini, di competizione, di nazionalità, di benessere, di sicurezza, in un contesto come quello attuale, dove proprio a causa di questo nostro modello economico, di questa visione di una “realtà separata”, paranoide e talvolta schizofrenica, si è prodotto il risultato davanti agli occhi di tutti?  Guerre, tensioni internazionali sempre più forti, interi popoli che scappano da distruzione, fame e disperazione, paura collettiva del futuro, paura dell’altro e ultimamente persino paura di noi stessi oppure per reazione e sfinimento arrivare fino a forme di “anestetizzazione totale della propria coscienza”, a volte sconfinanti in continue fughe dalla realtà, per il semplice motivo che manco più si riesce ad accettarla questa realtà.

Quotidianamente vediamo restringerci i nostri spazi umani, sociali e di comunicazione, eppure, con ostinazione, ci voltiamo di la. In fondo, con una parte di noi stessi, sappiamo bene che le nostre relazioni umane sono sempre più difficoltose, sempre più falsate, sempre più impoverite, sempre più spesso fingiamo, facciamo fatica, una fatica mentale, nervosa, emotiva, quasi ci costringessimo. Percepiamo bene che qualcosa non va, sappiamo bene che molto, per non dire quasi tutto, sarebbe da rimettere in discussione ma semplicemente l’accettiamo.  Allo stesso modo facciamo finta di non vedere donne, vecchi e bambini che tutti i giorni sbarcano sulle nostre coste, dopo che hanno subito e visto di tutto. Eppure, osservateli bene, hanno ancora con se la speranza, glie la leggi negli occhi, hanno sì la disperazione nel cuore ma anche la gioia per un possibile futuro, guardate con attenzione come nei loro occhi non ci sia odio per quel che hanno subito, com’è possibile?  Ebbene, hanno sofferto così tanto che ora cercano solo un po’ di pace, un barlume di serenità, uno scampolo di felicità. Mai come oggi, in tempi in cui le risposte sono finite, è necessario farci domande.  Abbiamo bisogno di domande. Individualmente e collettivamente ci aiuterebbe chiederci: “perché abbiamo così tanta paura? Perché la disperazione di questi fratelli che vengono di dal mare ci urta così tanto?  Perché facciamo finta che la loro povertà, le loro miserie, le loro lecite speranze non ci riguardino da vicino?  Perché ci ferisce oppure ci commuove riconoscere la loro toccante umanità?   Cos’è che non vogliamo vedere? Cos’è che non vogliamo più riconoscere in noi?”  Forse il problema non sono loro…. Forse il problema siamo noi, forse il problema è questa percezione divisa del noi e il loro….Forse sentiamo contraddizione e soffriamo a causa della nostra coscienza. Forse da tempo sentiamo la necessità individuale e collettiva di fare un salto evolutivo in avanti ma paura di perdere, egoismo, diffidenza, giudizio, rivalsa e individualismo in questo momento storico la fanno da padroni. Forse hanno seminato con così tanto impegno sentimenti umani bassi e oscuri che semplicemente abbiamo smesso di sognare, abbiamo smesso di farci domande, di dare spazio a qualsiasi moto che possa rompere l’accerchiamento delle nostre coscienze. Forse abbiamo dichiarato la resa, ritagliato piccoli angolini,  creato piccole bolle dove poter prendere giusto quel po’ di ossigeno per poter sopravvivere, in attesa che succeda “un qualcosa”, un evento esterno a noi che porti cambiamento.          
Ebbene, l’evento è arrivato, è davanti a noi, ci guarda tutti i giorni, ci parla attraverso questo costante flusso migratorio, ci lancia continui messaggi, attraverso questa crisi infinita, segnali che indicano che questo ciclo storico, umano, economico ed evolutivo si è ormai concluso, che prolungarlo è solo fonte di ulteriore sofferenza.
Prima o poi questa cosa andrà affrontata e anche se noi ci voltiamo di la, facciamo finta di non vedere, è la storia stessa che ci viene a cercare.  La storia ci sta dando un’opportunità unica, è adesso il momento di cogliere quest’occasione, è giunto il tempo di non voltarsi ancora una volta dall’altra parte, abbiamo assoluto bisogno di riscuoterci da un comodo sonno ingannatore da cui per troppo tempo, ci siamo fatti intorpidire.
Abbiamo bisogno di una “Rivoluzione Umana”, qualcosa che parta dal farsi domande, qualcosa che possa rimettere e rimetterci in discussione, senza il dubbio non esiste cambiamento alcuno e senza entrare in crisi non ci può essere nessuna alternativa.
 Perciò se non saremo noi a mettere in moto questo processo, sarà la storia stessa a farlo, come d’altronde è sempre successo.  Lo farà con un evento, una concomitanza di fattori, una “casualità”, assumendo che “il caso” in definitiva non esiste.  
 
La storia umana in definitiva, è la storia di ognuno di noi, di ogni donna e uomo, presente o passato, ci appartiene, ci sta guardando intensamente negli occhi, sta bussando ripetutamente alla porta, prima o poi la porta andrà aperta e la storia andrà ascoltata e poi seguita, perché non sempre è detto che possa esserci un’altra opportunità.