“Il declino dell’impero americano” è un saggio molto chiaro e diretto di Sergio Romano (Longanesi, 2014). Romano ritiene l’attuale sentiero politico internazionale americano ancora ben delineato dalle parole di Madeleine Albright, espresse durante la nuova crisi irachena del 1998: la minaccia dell’uso della forza è necessaria alla diplomazia, “Ma se dobbiamo usarla è perché noi siamo l’America, noi siamo la nazione indispensabile. Stiamo in alto, vediamo più lontano nel futuro di quanto vedano gli altri paesi, vediamo il pericolo da cui siamo tutti minacciati”.

Inoltre la guerra per l’indipendenza del Kosovo, “lasciò nei militati americani il ricordo spiacevole di un conflitto in cui avevano dovuto sottoporre i loro piani, ogni mattino, al Comitato militare della Nato, una sorta di stato maggiore collettivo che sceglieva gli obiettivi su cui gli aerei americani avrebbero lanciato bombe e missili nelle ore seguenti. I generali americani promisero a se stessi e al loro presidente che non avrebbero mai più combattuto in quelle condizioni e la Nato divenne da quel momento soltanto l’etichetta da applicare sulle operazioni militari degli Stati Uniti” per legittimare le guerre (p. 42).

Stranamente la situazione è la stessa di oggi, nonostante la buona conduzione della guerra del Kosovo, senza gravi effetti collaterali in Serbia e in Kosovo, mentre sono numerosi i disastri in Iraq e in Afghanistan, sia a livello economico, sia per l’alto numero di vittime civili. Quindi gli americani condannano il colonialismo affaristico dei paesi europei “per prenderne il posto” (p. 17).

Del resto è soprattutto dalla presidenza Reagan che il famoso complesso militare-industriale temuto da Eisenhower è “la musica di fondo della politica estera degli Stati Uniti” (p. 29). Comunque è sempre utile ricordare che l’America “ha promosso in alcuni casi la nascita di una giustizia mondiale, ma non è fra i paesi che hanno ratificato il Tribunale penale internazionale perché ciò che è utile e desiderabile per altri non è utile né desiderabile per se stessa” (p. 8).

Anche il caso di Edward Snowden è molto significativo: “L’americano che ha rivelato la dimensione globale della rete di ascolti tessuta da Washington è un traditore in patria, ma un benefattore nella Russia di Putin e persino nell’Unione Europea. In questo modo l’America di difende abilmente e previene con efficacia gli attacchi del nemico, ma paga un alto prezzo in termini di popolarità e di consenso. I suoi ambasciatori in Medio Oriente vivono e lavorano in ambasciate attrezzate come fortilizi. Non è facile, oggi, essere alleati dell’America” (p. 110).

In definiva l’Impero americano è militarmente inaffrontabile, in quanto spende in armamenti in un anno molto di più di quanto spendono tutte le nazioni del pianeta, ma è in azione da troppo tempo e su troppi fronti e gli ultimi stravolgimenti ucraini confermano l’estrema stanchezza di chi deve gestire le famigerate operazioni provocatorie ai confini dell’Impero.

Infatti con il tentativo americano di strappare un pezzo di terra poco importante all’influenza russa, la Russia, cioè la nazione più vincolante dal punto di vista energetico e militare, si è riavvicinata alla Cina, la nazione più condizionante dal punto di vista economico e finanziario, dato che gestisce gran parte della produzione industriale e gran parte del debito pubblico americano.