Con internet milioni di elettori hanno avuto accesso ad una quantità indefinita di informazioni. Come tanti capitani di nave senza patente, migliaia di persone sono state lasciate navigare nelle acque alte del web, incapaci di riconoscere i codici e quindi il senso delle proposizioni e delle immagini.
Gli effetti sono devastanti e scatenano in chi è rimasto ancora lucido lo stesso scoramento che si prova quando delle persone anziane vengono indotte, per incoscienza ed ingenuità, a concludere dei contratti-truffa.

Incapaci di discernere una notizia plausibile da una bufala, agli italiani, sopratutto se dai 40 ai 60, è stato dato uno strumento che non sono in grado di gestire. Basti vedere la facilità con cui catene di Sant’Antonio e fake news circolavano nei cellulari dei neofiti e ancora ora circolano in quelli dei nostri genitori.

In questo caos generalizzato vi è una sparuta minoranza di persone che invocano persino l’abolizione del suffragio universale. Diversi gruppi su Facebook denunciano in maniera sempre più allarmante l’analfabetismo funzionale (e non) di migliaia di italiani sempre più “webeti” e le loro odiose reazioni “di pancia”.

Ora, non fidarsi dei propri connazionali non sarà certo una bella cosa per un paese come il nostro sempre più volutamente frammentato, oggi disintegrato dalla diffusissima presunzione da parte di ognuno di essere depositario dello scibile umano grazie all’accesso libero a Wikipedia o ad un video complottista. La presunzione ostruisce il dialogo e approfondisce la voragine tra “intellettuali” e “popolo” e più in generale tra fazioni.

La storia ancora una volta ci insegna che questo dibattito è già stato affrontato nel periodo in cui nacque l’opinione pubblica e contemporaneamente si fondò lo stato di diritto ed in particolare la Repubblica Francese.

Durante il secolo diciannovesimo l’affermazione del principio del suffragio universale sostenuto da pochi radicali eredi della Rivoluzione Francese era avversato non solo dalla monarchia e dall’Ancien Regime ma, sopratutto, dalla borghesia liberale (il Piddì per i “webeti”), quella parte del Terzo stato che, insieme al popolo parigino, aveva abbattuto, insieme ai privilegi medievali, l’idea che la legittimazione divina fondasse anche quella politica.
La borghesia non si fidava dell’allargamento della base elettorale del popolo incolto: l’avvocato non si fidava del contadino. Così si stabilirono criteri censitari per fare del cittadino facoltoso, un elettore di pieno diritto; in pratica chi possedeva e pagava una certa quantità di tasse poteva partecipare alla “grande impresa-nazione”, da elettore e da eleggibile, come se si trattasse di una società per azioni.

Per decenni la storia della Repubblica Francese ha vissuto l’ambiguità liberale di voler incorporare il popolo in un regime rappresentativo stabile, garante delle libertà individuali, col rischio di mancare il movimento del popolo in difesa dei suoi diritti.
Inoltre le poche volte che si chiese al popolo di far sentire la propria voce, aveva dato carta bianca ai Robespierre e ai Napoleone, visti come autentici tiranni. D’altro canto per sopperire alla legittimazione tradizionale del potere, occorreva fondare una legittimazione fondata in un nuovo elemento, la volontà generale.
Si poneva quindi un dilemma, quello di dover conciliare l’idea di sovranità popolare (il numero) con quella di una volontà generale e razionale (la ragione); la democrazia reclamava il voto del più gran numero di elettori possibili, mentre la ragione ne esigeva la limitazione.

La soluzione fu trovata nel tempo di qualche decennio, lungo quel percorso in cui la Repubblica metteva dal 1870 le sue radici e stipulava un patto che, salvo la parentesi del regime di Vichy dovuta alla sconfitta militare, non verrà mai sciolto. Questo patto si fondava sull’idea di Ferdinand Bouisson che nel 1903 afferma: “Il primo dovere di una Repubblica è di fare dei Repubblicani. […] Per fare un repubblicano bisogna prendere l’essere umano, un bambino o l’uomo più incolto e dargli l’idea che deve pensare da solo, che non deve ne fede ne obbedienza a nessuno, che è a lui che spetta cercare la verità e non di riceverla fatta.”
Qualche decennio prima, agli inizi della Terza Repubblica, Jules Ferry fondava la scuola, cosciente che soltanto formando dei Repubblicani poteva combattersi l’oscurantismo della monarchia, della Chiesa, e delle tirannidi. Il numero, la massa, si doveva portare fuori (e-ducare) dall’ignoranza, dalla superstizione e renderlo un elettore “ragionevole”. Leggere, scrivere, far di conto, permetteva di accedere al mondo, alla società, e quindi ad una delle leve del potere, l’informazione.

Ritornando ad oggi lo scenario sembra ripetersi ma il nostro Stato, che dimentica periodicamente di essere una Repubblica, ha completamente dimenticato il compito di formare il cittadino e il suo spirito critico attraverso l’istruzione, lasciando che il semplice “pensiero magico” e irrazionale prendesse il posto delle luci del pensiero scientifico e della sua complessità, preludendo alle acclamazioni di salvatori della patria; complici decenni di televisione commerciale e dell’intrattenimento che ha proposto modelli anti-politici ed individualistici, il nostro Stato marginalizzando la scuola ha abbandonato il cittadino a sé stesso, al suo smartphone e all’oceano di informazioni che veicola, lasciando che vi sfoghi le sue reazioni emotive, sprovvisto sia degli strumenti per “leggere” la realtà, che di quelli per esprimere le proprie esigenze.

La democrazia è una formula delicatissima che, come insegna Aristotele, può degenerare in oclocrazia e poi in tirannide, quando non si formano cittadini coscienti.
Non trovo lungimirante ed efficacie come soluzione, quella di restringere l’elettorato ad un test di comprensione (a quello dovrebbe servire “l’esame di maturità”) per ottenere la tessera elettorale, altrimenti ci ritroveremmo dinanzi ad una oligarchia, e sarebbe anch’esso un ritorno al privilegio; né tanto meno in senso inverso restringere l’elettorato soltanto a chi fa parte della “democrazia in rete”, nuova tirannia dell’algoritmo.

Imparare a valutare l’attendibilità della fonte, a contestualizzare un’informazione, insieme ad una critica (se non rifiuto) dei social come strumento di dialogo e come fonte di informazione: quello che si deve diffondere non sono solo conoscenze, ormai facilmente accessibili, ma sopratutto strumenti di comprensione, di valutazione della conoscenza e dell’informazione, armando il cittadino di un filtro tra le sue paure e il suo smartphone, in modo tale insomma da rendere il “numero” ragionevole.