“Chi vi parla è sionista”, ha detto Gad Lerner in piazza San Giovanni “Quelli della mia famiglia che non sono riusciti a emigrare laggiù, dove sono nati i miei genitori, sono stati sterminati”. Questa verità vale per milioni di ebrei, sia di Israele che della diaspora (come Gad), i cui parenti sono giunti lì per necessità.
A quel luogo li unisce un legame esistenziale e viscerale. Vi erano giunti da profughi, come quelli che anche oggi, ovunque cerchino rifugio, esigono accoglienza, anche se difficile e gravida di possibili inimicizie. Ma a fianco e al di sopra di quella fuga disperata e ineludibile c’era chi la progettava come una guerra di conquista: organizzazioni non dissimili da Hamas in molte delle loro pratiche, che hanno poi costituito il nucleo della costituzione in Stato di quelle prime comunità “socialiste” di profughi, impegnate a costruire un proprio “focolare”, e non uno Stato, insieme a quei loro correligionari che da sempre risiedevano in quelle terre.
Ma da tempo anche ogni palestinese deve contare nella sua famiglia molti parenti sterminati, perché chi si era messo alla testa di quei profughi ebrei in cerca di un domani aveva già deciso di cacciarne e spesso sterminarne gli abitanti autoctoni.
Oggi il mondo intero inorridisce di fronte alla ferocia della strage del 7 ottobre e alla determinazione con cui la dirigenza di Israele cerca di disfarsi dei palestinesi. Ma quella determinazione non è nata il 7 ottobre del 2023, né nel 1967; era insita nella logica coloniale della costituzione in Stato di quella comunità di profughi. Certo, anche allora la convivenza di due comunità rivali era difficile, ma forse meno di quanto lo è diventata adesso; è stata la scelta dei due Stati, allora assai controversa, fatta dall’Assemblea dell’ONU nel 1947, ad aprire la strada a tutto ciò che è successo in seguito.
Oggi la gravità, ma ormai anche la rilevanza planetaria, di ciò che succede a Gaza obbliga tutti – e non solo gli ebrei e i palestinesi – a misurarsi con il problema della convivenza di due comunità così contrapposte senza nascondersi dietro a degli alibi. Il primo dei quali è proprio la continua riproposizione senza più contenuto dei “due popoli, due Stati”: la pretesa di rinchiudere dietro un confine l’ostilità reciproca di quelle due comunità. Troppo frantumati i territori palestinesi non ancora requisiti da Israele, privi di continuità territoriale, di sbocco al mare, di una propria economia, di un’amministrazione decente, uno di essi; troppo forte in campo militare, economico e diplomatico perché il primo non ne sia schiacciato l’altro.
Già con gli accordi di Oslo la ripartizione era iniqua; oggi sarebbe una farsa. Alibi è anche la prospettiva di uno Stato unico, “dal fiume al mare”, da cui gli ebrei venissero cacciati, come pretendono i fondamentalisti islamici e denunciano quelli ebrei: una comunità che si sente a casa lì da 80 anni e più non è né ospite né intrusa. E’ popolo di quella terra come lo sono coloro, palestinesi o ebrei, che la abitavano anche prima. Meno che mai “dal fiume al mare” può essere la soluzione di uno Stato ebraico, da cui cacciare un po’ alla volta tutti i palestinesi, come hanno continuato a fare per anni, senza dichiararlo, i governanti di Israele, ma che da qualche mese proclamano ormai apertamente. Quindi?
Quindi non resta che la convivenza nel quadro di una confederazione di tante comunità autonome, dai confini mobili, in parte etnicamente delimitate, in parte volontariamente miste, che NON sia uno Stato: cioè, che non ne abbia i connotati che lo definiscono: soprattutto un esercito proprio (nelle mani di chi?) e un’amministrazione unica e che sia sottoposta a una forza di interposizione per un periodo non definito né definibile.
Le condizioni di una prospettiva del genere sono talmente tante e difficili da renderla un vaneggiamento agli occhi dei più, ma ne esistono altre che non siano la sopraffazione definitiva di una parte sull’altra? Parti che non sono Israele e Hamas, ma Stati Uniti e vassalli della Nato da un lato e il mondo arabo e islamico dall’altro. Perché quella partita è mondiale. Ma a quali condizioni?
Innanzitutto, una coalizione internazionale di interposizione che comprenda Stati occidentali e Stati arabi e mediorientali (che non avrebbero più motivo di fronte uno Stato ebraico e potrebbero accettare la presenza di una vasta comunità autonoma di ebrei, come è stato per centinaia di anni per molti di loro.
Poi il disarmo di entrambe le parti, che per Israele significherebbe la rinuncia al suo potentissimo esercito e al suo arsenale atomico.
Poi il rispetto della risoluzione 194 dell’Onu che prevede il diritto al rientro – necessariamente graduale, su un ampio arco di tempo – di tutti i palestinesi che sono stati cacciati dalle loro terre e dei loro discendenti. Il che comporterebbe, sul lungo periodo, la ricollocazione teorica di oltre 5 milioni di rifugiati e forse più e forse, per “pareggiare” i conti demografici, l’arrivo di altri 5 milioni di ebrei. Insieme agli abitanti attuali, comporterebbe la presenza di circa 20 milioni di abitanti in 26mila chilometri quadrati: più o meno quanto la Sicilia. La tecnologia, in Israele, molto sviluppata, ce la potrebbe fare, ma è una strada davvero in salita. Legata al punto precedente, una redistribuzione equa di terre e risorse, compresa la ricostruzione di Gaza e dei villaggi palestinesi spianati.
Certo è una prospettiva difficile anche solo a pensarla, ma è un modello ineludibile di convivenza tra tutte le comunità oggi in conflitto sullo stesso territorio. Un fenomeno in crescita.