Iniziava il 24 marzo 1999, 25 anni fa, l’aggressione della Nato all’allora Repubblica Federale di Jugoslavia, uno degli eventi spartiacque del nostro tempo, talmente denso di implicazioni da essere diventato perfino un vero e proprio oggetto di studio da parte di osservatori e analisti.

Con quella guerra infatti questioni e pretese destinate ad avere grande impatto nei tempi successivi venivano portate al centro dello scenario internazionale. Intanto, la più evidente, grave al punto da essere spesso, paradossalmente, rimossa: con l’aggressione alla Serbia e i bombardamenti su Belgrado, gli Stati Uniti e gli alleati della Nato riportavano la guerra nel cuore dell’Europa, dopo le guerre di disgregazione della Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta.

Il ritorno della guerra in Europa

In un articolo, scritto il 22 marzo 2019 in occasione del ventennale dei bombardamenti alla Jugoslavia, Luciana Castellina sottolineava, tra gli altri, tre elementi cruciali. In primo luogo, il fatto che «per la prima volta è tornata la guerra in Europa come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, così rovesciando i principi sui quali si era faticosamente costruita la pace mondiale dopo il 1945».

Inoltre, «è la prima guerra che si è combattuta sul suolo europeo dalla fine del conflitto mondiale; è un’aggressione di europei a un altro Stato sovrano europeo, del sud-est dell’Europa. Smentisce così la mitologia, che si ripete ogni giorno, secondo cui la creazione dell’Unione Europea avrebbe per sempre allontanato lo spettro degli scontri fratricidi fra le nazioni del vecchio continente».

Infine, per la prima volta, «viene stracciato brutalmente un accordo internazionale considerato uno dei pilastri dell’ordine postbellico: quello di Helsinki». Sul posizionamento dell’Europa nello scenario del mondo e sul ruolo dell’Unione Europea di fronte alle crisi internazionali, peraltro, le contraddizioni sono talmente profonde da ripetersi in diversi contesti.

Dal 2003 l’UE ha avviato oltre 30 missioni internazionali e al momento ben 9 missioni militari UE sono in corso in Europa, Africa e Medio Oriente. L’impegno militare UE a sostegno del regime di Kiev in Ucraina è impressionante, dal momento che, come indicano i documenti ufficiali, «insieme al sostegno militare fornito dagli Stati membri dell’Unione Europea, il sostegno complessivo all’esercito ucraino è stimato a 33 miliardi di euro».

Orrori e paradossi della “guerra umanitaria”

In quella occasione, con l’aggressione della Nato alla Repubblica Federale di Jugoslavia del 1999, non solo si definiva nella maniera più nitida una modalità di esercizio dell’azione militare che sarebbe stata poi rivista e aggiornata anche per altri contesti e situazioni, ma si delineava nella maniera più compiuta il paradigma assurdo della cosiddetta “guerra umanitaria”.

Difendere i diritti violando i diritti; fare la guerra per portare la pace; un’assurdità logica, un ossimoro feroce, in base al quale, in nome di una (presunta) finalità umanitaria strumentalmente agita, si scatenava una guerra, anche violando in maniera sistematica norme e principi elementari di diritto e di giustizia, dalla non-ingerenza nelle questioni interne dei singoli Paesi, al rispetto per la sovranità e l’indipendenza politica delle nazioni, alla tutela della pace e della sicurezza internazionale.

Dietro le apparenze “umanitarie” si cela quindi la realtà di una guerra imperialistica di aggressione, alla quale non fu estraneo il governo italiano dell’allora “centrosinistra”, con cui la Nato e le principali potenze europee ed atlantiche, a partire dagli Stati Uniti, intendevano in realtà perseguire ben altri obiettivi.

In primo luogo, un’esigenza strategica generale: l’omologazione in chiave «atlantica» del continente, eliminando i punti di resistenza e, tra questi, la Jugoslavia. Quanto questo processo di omologazione sia andato avanti, lo mostra la recente “Dichiarazione congiunta sulla cooperazione UE-Nato” (10 gennaio 2023) che definisce la Nato «essenziale per la sicurezza euro-atlantica» e l’UE (e la difesa europea) «complementare alla Nato e interoperabile con essa».

In secondo luogo, un’esigenza strategica legata al riposizionamento nello scacchiere europeo e mediterraneo, come fattore di conferma dell’egemonia statunitense e contenimento dei rivali strategici, Russia e soprattutto Cina. Nel contesto della guerra alla Jugoslavia si concretizza la prima espansione della Nato (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) e subito dopo la guerra, alla fine del 1999, gli Stati Uniti costruiscono proprio in Kosovo la loro più grande base militare in territorio europeo, Camp Bondsteel, destinata a essere superata, per grandezza e potenza, dalla nuova base di cui è stata avviata la costruzione a Costanza, in Romania, a ridosso dei confini della Federazione Russa.

In terzo luogo, un’esigenza strutturale, legata alle rotte dei mercati e ai flussi delle risorse, una vera e propria «geopolitica delle risorse», in quella che, a cavallo tra Europa, Asia e Medio Oriente, è una regione cruciale, i Balcani e al loro centro il Kosovo. Il Kosovo è infatti un crocevia della «griglia energetica» (che, partendo dal Caspio, supera il Mar Nero, attraversa la Turchia e i Balcani e approda, infine, sul Mar Adriatico) ideata dagli Stati Uniti per l’approvvigionamento di petrolio e gas e per aggirare la Russia, estromettendola dalla competizione energetica.

Una nuova Nato per la guerra globale

Con la guerra alla Jugoslavia, la Nato andava riconfigurando il proprio profilo e con il Vertice di Washington, a guerra in corso, il 24 aprile 1999, veniva adottato il Nuovo concetto strategico, che rende definitivamente l’organizzazione uno strumento di guerra globale.

Come stabilisce l’art. 31 del documento, infatti, «la Nato cercherà, in cooperazione con altre organizzazioni, di prevenire i conflitti o, in caso di crisi, di contribuire alla loro gestione efficace … anche attraverso la possibilità di condurre operazioni di risposta alle crisi al di fuori dell’art. 5», articolo che limita(va) il raggio di azione dell’Alleanza «in Europa o in America del Nord».

Né possono essere taciute le conseguenze, dirette e indirette, della guerra: un numero di vittime civili stimato pari a 2.500 (secondo altre fonti, oltre 4.000), e più di 12.500 feriti, con danni complessivi stimati in oltre cento miliardi di dollari. Per non parlare dei 420.000 missili, delle 37.000 “bombe a grappolo” e delle munizioni a “uranio impoverito”. Il danno da contaminazione continuerà a mietere vittime nel corso delle generazioni.

L’Europa e per diversi aspetti il mondo come oggi lo conosciamo è in buona parte prodotto della dinamica strategica innescata proprio con la guerra alla Jugoslavia: un crocevia della storia, del quale è bene non dimenticare le motivazioni e le responsabilità e per il quale è necessario continuare la lotta, in senso internazionalista, per la pace e per la giustizia.

Riferimenti:

Luciana Castellina, “1999, bombe su Belgrado. I frutti amari di quella prima guerra “umanitaria”, ilmanifesto, 22 marzo 2019:
https://www.dirittiglobali.it/2019/03/1999-bombe-su-belgrado-i-frutti-amari-di-quella-prima-guerra-umanitaria

Danilo Zolo, “L’intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale”, Jura Gentium, 2007:
https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/kosovo.htm

Živadin Jovanović, “NATO’s 1999 Aggression Against Yugoslavia: Turning Point”, Forum di Belgrado per un mondo di uguali, 19 marzo 2023:
https://antibellum679354512.wordpress.com/2023/03/20/natos-1999-aggression-against-yugoslavia-global-turning-point