Da quasi settant’anni i responsabili dei governi europei ci ripetono che la strada per l’unificazione politica dell’Europa passa attraverso l’integrazione (graduale e progressiva) delle rispettive economie: si è cominciato con la CECA (comunità del carbone e dell’acciaio) e l’Euratom (nucleare civile), si è transitati per il serpente monetario e la moneta unica, per arrivare al fiscal compact, finalizzato a legare le mani ai governi che ne subiscono maggiormente le conseguenze negative: più si integravano le economie e più si allontanava l’unità politica. E’ mancato, ci dicevano, una regia delle politiche fiscali – un ruolo che per un po’ si era pensato di attribuire a Monti – mentre quel regista c’è ormai da parecchio tempo: è la BCE e, per un lungo periodo, Draghi: due personaggi formatisi sotto l’ala della Goldman Sachs. Ed è detto tutto, sia per quanto riguarda la loro consonanza con gli interessi dell’alta finanza, sia per quanto riguarda la loro dipendenza dalla politica degli USA.

Per promuovere una vera unità politica non serve quella loro economia, che anzi è di ostacolo. Ci vuole una politica comune all’altezza del ruolo che si intende ricoprire (o che si ritiene irrinunciabile per non finire “sommersi”). Ma quella politica non c’è: doveva e poteva essere una grande iniziativa di tutela dell’ambiente – e di promozione di una maggiore equità, indissolubilmente legata ad essa – e poi, in modo sempre più pressante, di salvaguardia del clima. Ma è stata sistematicamente disattesa (e per lo più, nemmeno compresa), anche se i responsabili dell’Unione Europea vantavano su di essa un inconsistente “primato”; oggi fragorosamente franato di fronte alla guerra in Ucraina, che li ha fatti precipitosamente ritornare – ma la cosa era già nell’aria – al carbone, al gas da ogni dove, alle nuove trivellazioni, al nucleare di ogni tipo e, consequenzialmente (l’economia fossile chiama alle armi), al potenziamento della spesa in armamenti.

Così adesso ci viene detto che il maggiore e mostruoso impegno finanziario di alcuni Stati membri europei sulle armi (ma anche su gas e nucleare), quello che Il Foglio, ignaro della risonanza che certi termini possono avere, ha chiamato “l’asse Roma-Berlino”, è la strada obbligata verso una “politica di difesa” (leggi un esercito) comune e attraverso di essa verso una politica estera più autonoma dalla Nato e dagli interessi degli Stati Uniti. Niente di più falso: l’aumento della spesa militare fino al 2% del PIL è proprio ciò che gli Usa e la Nato ci stanno chiedendo da anni – insieme ai sempre più numerosi impegni diretti degli Stati membri in tutti i teatri di guerra aperti negli ultimi anni: Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria e ora di fatto Ucraina, anche se in modo indiretto. Manca forse un generale comune, come mancherebbe il regista delle politiche fiscali? No. Le forze armate della maggior parte degli Stati europei sono da tempo impegnate in manovre integrate della Nato, in corso anche ora, sotto il comando Usa e ai confini della Federazione Russa: proprio quelle che hanno dato a Putin la possibilità di sostenere che stava aggredendo per tutelarsi. Difficile che se ne sgancino.

Anche in questo caso – anzi, soprattutto in questo caso – una politica estera comune dell’Unione Europea non può nascere sulla punta delle baionette – oggi trasformate in bombe atomiche, o anche “convenzionali”, ma quasi altrettanto micidiali), ma solo da un impegno straordinario – e potenzialmente “trainante” – nella lotta contro la crisi climatica e la devastazione ambientale. Che avrebbe dovuto godere di quella prontezza di decisione messa invece in campo da tanti governi nel trasferire da un giorno all’altro risorse dal welfare alle armi.

Di fronte a questa deriva micidiale c’è da chiedersi se non sia proprio la scelta di sostenere la resistenza dell’Ucraina con un invio massiccio di armi (a integrazione di quelle che Nato e Usa avevano già più o meno segretamente inviato prima che scoppiasse la guerra) ad aver aperto la strada a quell’aumento della spesa in armamenti che anche molti dei fautori della scelta del sostegno armato all’Ucraina deplorano. Tra quelle due scelte non c’è alcuna consequenzialità, sostiene Gad Lerner su Il Fatto. E invece sì. Il papa lo ha capito, Gad no. Perché più si prolunga e si intensifica quella guerra con l’invio di armi – invece di puntare su una vera mediazione, a cui subordinare tutte le eventuali sanzioni messe in atto o in cantiere – e più si scivola verso una situazione irreversibile, che rende non sensato – perché non lo sarà mai – ma giustificato potenziare la barriera contro il possibile sconfinamento di quella guerra.

Gli esperti militari – e molti di coloro che si sono inopinatamente promossi tali – sono divisi tra due scenari alternativi: Putin è alle strette, sta perdendo e perderà la guerra; oppure Putin sta avanzando secondo un piano programmato. Nessuno di noi profani è in grado di pronunciarsi in proposito. Ma immaginare le conseguenze delle scelte fatte dai nostri governi, questo sì, è una responsabilità che tutti dovremmo assumere.