Il conflitto armato in corso in Ucraina, con tutto il carico di evidente drammaticità che porta con sé e con tutto il volume di risonanza mediatica da cui è accompagnato, ha riportato a tema, nuovamente e gravemente, l’annoso quesito: che fare? È un interrogativo che non anima solo le forze del movimento per la pace e contro la guerra, nelle sue diverse e variegate espressioni e articolazioni, più che mai presenti e attive, peraltro, nelle diverse modalità di attivazione cui stanno dando corso, dal lavoro, importante e prezioso, di documentazione, informazione e contro-informazione, alla promozione di campagne di accoglienza e di solidarietà con i profughi e gli sfollati, passando per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, gli interventi e le riflessioni, le manifestazioni e le iniziative, e chiaramente il lavoro, propriamente politico, che si intreccia con le diverse campagne, contro l’incremento delle spese militari e il riarmo, contro la militarizzazione e la radicalizzazione del controllo sociale, per la costruzione di proposte di superamento del conflitto e di soluzione politica della crisi.

È un interrogativo che attraversa, infatti, la società tutta, cittadini e cittadine che si chiedono cosa si possa fare, quale contributo sia possibile offrire al fine di ridurre sempre più gli spazi della violenza e dell’escalation, e ampliare sempre più l’area della pace e della giustizia, anche qui, provando a delineare una prospettiva che non parli il linguaggio delle armi e della violenza, bensì quello della politica e delle soluzioni di reciproco beneficio. In questo senso, l’insieme delle attivazioni e delle sperimentazioni che la società civile organizzata prova a concretizzare riporta in auge l’impegno proprio della diplomazia popolare, la diplomazia dal basso: essenzialmente, la costruzione di relazioni tra organizzazioni ed esperienze di società civile, capace di attivarsi sulla base di una domanda leggibile, proveniente dalle formazioni sociali del contesto attraversato dalla crisi e dal conflitto, e in virtù di una proposta condivisa tra le organizzazioni che si mettono a disposizione di questo cimento diplomatico, una proposta costruttiva, all’insegna della nonviolenza, di una comune ispirazione, laica o religiosa, comunque orientata alla definizione di soluzioni positive, costruttive, informate alla pace, se non, in particolare, alla pace positiva, una pace non indifferente alle motivazioni profonde, strutturali e culturali, del conflitto, che sappia attivare una triangolazione efficace tra la fine delle ostilità, la pace, e la giustizia sociale.

È, dal basso, a partire dalle persone, sulla base delle organizzazioni della società civile, uno sforzo diplomatico a tutti gli effetti, che può essere portato ai livelli istituzionali e ai tavoli di mediazione, ma che resta sostanzialmente diverso dalla diplomazia degli Stati e che, soprattutto, prende le distanze dalle modalità assertive, spesso basate su logiche di potenza e ragioni di interessi, che normalmente caratterizzano le relazioni tra gli Stati. La strumentalizzazione della diplomazia, perfino una sua torsione coercitiva, è ciò a cui abbiamo assistito, ad esempio, in occasione dei tavoli di Rambouillet, che hanno preceduto l’aggressione della NATO alla Jugoslavia (1999) e che produssero una proposta “diplomatica” del tutto inaccettabile, che, ad esempio, prevedeva (art. 8 app. B cap. 7) che la NATO «dovrà godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei ed equipaggiamento di libero e incondizionato transito attraverso l’intero territorio della Jugoslavia, ivi compreso l’accesso al suo spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovrà includere, ma non essere a questo limitato, il diritto di bivacco, manovra e utilizzo di ogni area o servizio necessario al sostegno, all’addestramento e alle operazioni». Condizioni tali che perfino autorevoli figure istituzionali avrebbero poi ritenuto, in buona sostanza, inaccettabili per qualsiasi Paese.

Sono proprio forzature di questo genere e ingerenze abusive da parte degli Stati più potenti ai danni degli Stati più deboli (questa essendo la ratio stessa del fondamentale principio di non-ingerenza) ad avere fatto ritenere, a una parte consistente della dottrina, del tutto inaccettabile il principio (il format) della cosiddetta R2P, la famigerata «Responsabilità di Proteggere». Da una parte vi è la formulazione ufficiale delle Nazioni Unite, in base alla quale «la comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, in conformità con i capitoli VI e VII della Carta, per aiutare a proteggere le popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro umanità. In questo contesto, siamo pronti a intraprendere un’azione collettiva, in modo tempestivo e deciso, attraverso il Consiglio di Sicurezza, in conformità con la Carta, compreso il Capitolo VII, caso per caso e in cooperazione con le pertinenti organizzazioni regionali ove appropriato, qualora i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali non riuscissero manifestamente a proteggere le loro popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità». Inevitabile il riferimento alle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza e alla piena conformità con la Carta; in questo quadro, a norma della Carta, misure e sanzioni non deliberate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non sono legittime.

Dall’altra vi è l’esercizio della forza da parte delle potenze, che ha portato non pochi osservatori a ritenere che «la “responsabilità di proteggere” è una sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel diritto internazionale, mentre i principi del diritto internazionale respingono con fermezza le interferenze» (J. Bricmont) e «il dovere degli Stati di proteggere i propri cittadini … non dovrebbe essere usato come pretesto per minare la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale degli Stati». Come segnalò il G77 con la Dichiarazione dell’Avana (10-14 aprile 2000), «la globalizzazione non deve essere usata contro i principi della sovranità e della non ingerenza, … ogni Stato può scegliere il suo sistema politico, e va respinto il diritto di intervento umanitario».

Diritto e giustizia internazionale non possono essere disgiunti: traguardare la prospettiva della pace, e della «pace positiva» nello specifico, non può non richiedere questo sforzo, di pace e diritti, giustizia ed eguaglianza.