Chi segue Pressenza sa che l’agenzia ha fatto il meglio che poteva per raccontare la vergogna dei CPR (di fatto centri di detenzione per immigrati) e per capire cosa avviene dentro questi luoghi opachi, sorgenti di sofferenza, dove la voglia di morire è dietro l’angolo. Continueremo a farlo.

Si sa da tempo che i più “sfortunati”, cioè coloro che hanno più probabilità di finire in un CPR e di salire su un aereo per essere rimpatriati, siano i tunisini. Così quando ho visto l’ottimo documentario “La via del ritorno1 su RAI NEWS 24, che riguardava proprio questi giovani tunisini che provano a venire in Italia, ho cercato chi ha lavorato alla sua ideazione. Ecco qui l’intervista fatta a Matteo Garavoglia, piemontese, 30 anni, in collegamento da Tunisi.

Come mai sei finito in Tunisia?

Ho una formazione come storico e già nel 2016 ho fatto una tesi sul processo costituzionale tunisino, avvenuto tra il 2011 e il 2014. Sono sempre stato interessato al Nord Africa e al Medio Oriente. Già nel 2011 ero molto interessato ai movimenti avvenuti in quest’area, ma ero lontano. Negli anni seguenti sono venuto sempre più spesso. Oggi mi trovo in Tunisia, in questo momento è uno dei pochi Paesi dove si può approfondire questa parte di mondo.

Il 25 luglio 2021 in Tunisia c’è stato il colpo di forza del Presidente della repubblica Kaïs Saïed, che ha congelato il parlamento e sciolto il governo sulla scia di una crisi politica ed economica strutturale. Questo ha creato un duro dibattito, soprattutto qui a Tunisi dove mi trovo. Per qualcuno è stato un colpo di stato, per altri un colpo di forza, per altri ancora una mossa costituzionale per preservare i fragili equilibri del Paese. Il prossimo 25 luglio verranno votati importanti emendamenti alla Costituzione. Il 17 dicembre del 2022 ci saranno le elezioni anticipate: una data non casuale, visto che sarà il dodicesimo anniversario del giorno in cui Mohamed Bouazizi si diede fuoco, dando il via alla Rivoluzione tunisina. Lo scenario è incerto e complicato e le prossime elezioni potrebbero essere una conferma del potere dell’attuale presidente.

Nel frattempo i tunisini, seppur in minima parte, stanno votando sia online che in presenza per raccogliere opinioni sulla nuova forma istituzionale e politica che dovrà avere il paese. La partecipazione per ora è bassa, ma Saïed sta già dicendo che i tunisini vogliono un regime presidenziale e una riforma della giustizia a cui nel frattempo ha già messo mano, e che il parlamento ha perso credibilità. Tutto questo secondo Saïed.

Effettivamente la classe politica dopo le rivolte del 2011 non ha riguadagnato la fiducia della popolazione, tanto che quando il 25 luglio scorso Saïed ha esautorato il parlamento non ci sono state reazioni di piazza, se non in segno di approvazione alla mossa di Saied. In effetti in questi anni la crisi economica e sociale non è stata mai affrontata seriamente e lo scontento è grande.

L’impressione generale, qui in Italia, è che le primavere arabe abbiano ottenuto dei risultati immediati, ma sul medio periodo abbiano visto poche modifiche sostanziali e abbiano lasciato parecchia delusione: è così?

Bisogna contestualizzare: la crisi che scoppia nel 2011 arriva quanto meno dalla crisi economica mondiale del 2007-8. Il venditore ambulante Mohamed Bouazizi, dopo che gli viene sottratta la merce, si dà fuoco a Sidi Bouzid, una città dell’interno, in province dove davvero non ci sono grandi opportunità. La popolazione era esasperata da condizioni di vita durissime e da un regime – quello di Ben Ali – che aveva un controllo assoluto di tutto quello che succedeva in Tunisia. Già negli anni precedenti c’erano state manifestazioni (nel bacino del fosfato di Gafsa), represse nel sangue. Il malcontento covava da tempo.

Quindi l’esplosione della protesta sociale nel 2011 vede sia un versante socioeconomico che politico, per una maggiore libertà e democrazia. Nel corso degli ultimi 10 anni dal punto di vista delle libertà individuali e di espressione la situazione è migliorata parecchio; dal punto di vista economico e sociale i progressi sono stati davvero esigui e la disillusione è stata grande. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) è intervenuto almeno tre volte e anche la prossima legge finanziaria del 2022 dipenderà da un contributo – non ancora certo – del Fmi di 4 miliardi di euro che provocherà una forte riduzione della spesa pubblica (che è il settore più importante della Tunisia).

Diciamo che dopo un momento rivoluzionario in cui, tolto il despota Ben Ali, si pensava ci potesse essere un cambio strutturale, questo non c’è stato e il deterioramento sociale è continuato drammaticamente.

Eppure, ci fu un periodo a metà ‘900 in cui gli emigrati in Tunisia erano italiani e francesi. La terra era fertile e si arricchirono, e hanno poi dovuto lasciarla a malincuore.

Ancora oggi qui ci sono oltre 800 imprese italiane, ma la ricchezza finisce nelle mani degli imprenditori e la manodopera è a basso costo. Anche la fiorente industria del turismo porta ben poco nelle casse dello stato, non vi è la redistribuzione della ricchezza ottenuta. Il turismo è stato comunque fortemente colpito dagli attentati del 2016: a Tunisi, al museo nazionale del Pardo, e a Sousse nei grandi resort sul mare. Il Covid ha fatto il resto. La popolazione tunisina chiede, con forza e legittimità, un miglioramento delle sue condizioni sociali. Le manifestazioni ci sono state e ci saranno.

Quale ti sembra il grado di coscienza politica della popolazione?

Credo che la popolazione sia ben cosciente di quello che avviene, il dibattito è aperto. Pochi giorni dopo il gesto di forza di Saïed, l’87% della popolazione era d’accordo con lui. Ciò fa capire almeno in parte le motivazioni del presidente rispetto ad una situazione che gli stessi tunisini giudicavano insostenibile. Considera che il 25 luglio 2021 cade in piena quarta ondata di pandemia Covid, con la gente che moriva per strada per mancanza di ossigeno, una situazione terribile. Sicuramente a Tunisi il dibattito ha anche un versante “politico”. Nella provincia i bisogni sono talmente impellenti, materiali, immediati, che si va più al sodo. L’obiettivo è quello di migliorare le proprie condizioni di vita.

Se dopo il 25 luglio 2021 il Presidente aveva raccolto un buon seguito, questo sta lentamente scendendo. La retorica sul “salvatore di turno” sembra non bastare più a risolvere i problemi e pare che i soldi non ci siano.

Vediamo invece chi ha partecipato alle manifestazioni contro questo presunto colpo di stato di cui si accusa Saïed. Queste iniziano a settembre-ottobre ’21 auto-organizzate da un movimento che si dice spontaneo e che si definisce “cittadini contro il colpo di stato”. Uno dei suoi leader è un docente universitario, Jahouar Ben M’barek, collega in università di Kaïs Saïed con il quale discuteva, nel 2011, su quali forme avrebbe dovuto prendere la nuova democrazia tunisina. Le manifestazioni inizialmente hanno visto una partecipazione abbastanza scarsa di alcune centinaia di persone, che a mano a mano sono cresciute. Chi vi partecipa? Molti sono simpatizzanti di Ennahda, partito di ispirazione islamica, nemici di Ben Ali, protagonisti della gestione del Paese dal 2011 ad oggi e quindi già sfiduciati dalla popolazione, accusati di non aver fatto le riforme promesse. Sinistra, attivisti, sindacati, società civile non erano in piazza. Queste importanti componenti sono rimaste alla finestra, ma quando di recente hanno cominciato a chiedere a Saïed come pensa di proseguire, questi non ha ritenuto di dover render conto a nessuno.

Ho intervistato Ben M’barek, che si definisce uomo progressista e di sinistra, e mi diceva: “Io non posso vietare agli islamisti di Ennahda di venire in piazza, quello che mi stupisce è che non scenda la sinistra.” Insomma, la situazione è piuttosto confusa. Arriviamo così allo scorso 14 gennaio, anniversario della cacciata di Ben Ali nel 2011, quando la manifestazione (dopo un divieto promulgato due giorni prima causa pandemia) viene comunque annunciata dal partito Ennahda, ma anche da diversi altri partiti socialdemocratici e di sinistra. La risposta della polizia è brutale: idranti, arresti sistematici, pestaggi con manganelli e bastoni. Ai giornalisti viene impedito di documentare i fatti. Anche un collega di Liberation, Mathieu Galtier, viene gasato, picchiato e portato in commissariato.

Quello che è avvenuto è proprio un cambio di atteggiamento, per avere smentite o conferme dovremo aspettare la prossima manifestazione.

Tu vivi lì? Parli arabo?

Sto studiando arabo, parlo francese, da agosto scorso sostanzialmente vivo qui. Fino al 14 gennaio scorso ero abbastanza tranquillo. Certo è che i giornalisti, e non solo, sono spesso controllati: diciamo che il Ministero degli interni, dal 2011 ad oggi, non è cambiato poi così tanto… Come giornalisti stranieri siamo sicuramente privilegiati rispetto a quelli tunisini, che devono sicuramente stare più attenti. Diciamo che la libertà di stampa c’è, a parte qualche caso di intimidazione sospetta.  Certo, la repressione del 14 gennaio non è stata un segnale tranquillizzante, l’impressione è che questa declamata libertà di espressione abbia cominciato a restringersi. Vedremo.

Tutto ciò che hai descritto fino ad ora è collegato al recente aumento delle partenze via mare verso l’Europa?

Si, il numero negli ultimi due o tre anni è aumentato considerevolmente. Ognuno ha la sua storia personale, per partire o meno, ma a grandi linee sono giovani che cercano in Europa migliori condizioni di vita, un futuro più dignitoso rispetto a quello che avrebbero in Tunisia. Coloro che partono sono tanti, ma sono comunque una minoranza: nel 2020 le partenze sono state circa 15mila. I giovani sanno che l’Europa non è più quel “miracolo” di diversi anni fa, ma ci provano ugualmente, rimane un’occasione di cambiamento. Qui le prospettive sono davvero poche. Molti si indebitano per partire. Da qui partono anche moltissimi che provengono da altre parti dell’Africa. Dal 2019 le partenze sono proprio cresciute, la crisi è forte, si tocca con mano. C’è da dire che siamo alla seconda o terza generazione di immigrati arrivati in Europa; quindi, molti hanno un parente al di là del mare.

Nei CPR italiani e fra i rimpatriati, i tunisini sono in una percentuale molto alta.

Si, questo è frutto degli accordi tra i due governi: molti giovani si fanno domande, vogliono sapere, capire. Chi viene rimpatriato può essere anche maltrattato dalla polizia; di base, se vieni rimpatriato dovresti essere perseguito penalmente: uscire dai confini senza permessi è un reato penale, ma di norma lasciano andare. Quello che è forte è il trauma psicologico e personale: dopo aver faticato tanto per risparmiare, pagare la traversata, speso tanto economicamente e psicologicamente, l’essere rimpatriati è una vergogna enorme, difficile da superare.

Hai parlato con giovani che sono passati nei CPR in Italia?

Si, nei CPR di Trapani, Roma, Potenza… Le condizioni sono del tutto simili ad un carcere, con l’aggravante che non sai e non capisci quali siano i tuoi diritti. Il più delle volte non vengono informati sul tipo di domanda di protezione internazionale che avrebbero potuto fare.

Sono coscienti i tunisini di avere questa condizione “eletta” di essere tra i pochi rimpatriati?

Si, ce l’hanno eccome e giustamente si chiedono: “Ma perché noi?”. Nello stesso periodo del 2020 i tunisini sono stati 10 volte di più degli egiziani rimpatriati. Ti farò vedere le tabelle, sono incredibili. C’è la volontà del governo tunisino di accettare questo tipo di accordi. Ecco che il discorso si ricollega a quello che dicevamo prima: il governo tunisino cerca di accreditarsi presso l’Europa per avere maggiori finanziamenti. Si tratta di uno dei pochi capitoli dove Tunisi sembra avere potere negoziale.

Un’ultima nota su tutto ciò: nell’autunno scorso il portavoce di Macron, Gabriel Attal, esce pubblicamente con affermazioni del tipo: “Siamo stufi degli algerini, marocchini e tunisini che non accettano i rimpatri che dobbiamo fare e quindi taglieremo i visti!” Dai governi algerino e marocchino vi è stata un’alzata di scudi, da parte del governo di Kaïs Saïed (reduce dal recente colpo di forza del 25 luglio) silenzio e, a detta di molti, ennesima ricerca di sostegno all’estero.

 

Tabella 1 e 2: Numero di migranti rimpatriati per paese negli ultimi mesi del 2020. Fonte: Ministero dell’Interno – Direz. Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere

 

  1. “La via del ritorno”: i lati oscuri dell’intesa Italia-Tunisia sulle politiche migratorie: il documentario è firmato da Giovanni Culmone, Youssef Hassan Holgado e Matteo Garavoglia