Una delle raffigurazioni possibili della memoria, forse tra le più misteriose ed evocative, viene delineata nella “Persistenza della Memoria”, capolavoro di pittura surreale nel quale Salvador Dalì (1931) sembra richiamare, o per lo meno alludere a sorprendenti analogie concettuali con la – variamente dibattuta – “questione della memoria”. È uno scenario di “orologi molli, i quali, pur segnando ancora il tempo, sembrano avere perso tutta la loro solidità”.

Permanenza della memoria e rivisitazione del tempo attraverso rimandi e angosce; simmetrie scontornate, quasi di destini e forme incrociate; colori caldi e freddi, ambivalenze e inquietudini, iterazioni e sconvolgimenti. Alcune di queste parole potrebbero affiancare la descrizione di eventi storici, o rappresentare pagine della storia dei popoli che per tutto il lungo e gravoso “secolo breve»” sono stati vittime di oppressioni e genocidi, a partire dalla più spaventosa, scientificamente abominevole e razionalmente agghiacciante, tragedia del nostro tempo, quella della Shoah.

Per quello, la memoria non può essere che attiva, non può che volgersi nella direzione del futuro. Ponendosi “Davanti al dolore degli altri”, Susan Sontag, ad esempio, ammonisce che “non c’è nulla di male nel fare un passo indietro e pensare: nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro”. La tragedia storica, unica per le modalità con cui si è consumata e i caratteri da cui è contraddistinta, della pianificazione e della esecuzione dello sterminio del popolo ebraico, non è un “olocausto”, un sacrificio rituale offerto al potere o al divino, né il compimento di un destino scritto. La lunga storia, di memorie e di racconti, delle culture ebraiche nell’Europa orientale, fino all’eroica rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, sta lì a dimostrarlo. È frutto viceversa di un piano sovra-ordinato di distruzione pianificata, scientificamente predisposta e burocraticamente organizzata, realizzata con inquietante sistematicità e perizia, alla stregua di tutta la strumentazione tecnica più raffinata e in ossequio ad un piano che non fu folle ma calcolato frutto di un’ideologia aberrante, la più tragica della storia del Novecento e, in tutta probabilità, della storia dell’umanità.

Vi è un luogo, nell’Europa e nella storia, in cui alla fine avrebbero dovuto confluire entrambi i temi di quel dipinto, il silenzio e la memoria, dove si sarebbe ri-animata una memoria antica e da cui sarebbe emersa una nuova memoria. “Un giorno” racconta Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986, nella bellissima “Celebrazione Hassidica” (pubblicata dalle Spirali di Milano nel 1987) “Eliezer Lipman, uomo ricco e caritatevole, incontra un mendicante diretto al villaggio. Fa fermare la carrozza e lo invita a salire. Il mendicante rifiuta: “Non ho fatto ancora niente nella giornata”. Quanto ti frutterà? – “Venticinque ducati”.   Te li do io. Vieni con me.  Il mendicante si ostina nel suo rifiuto: “Se le persone che hanno l’abitudine di aprirmi la porta oggi non mi vedono si preoccuperanno per me”. Non importa, andrò io stesso a spiegare loro. Lasciando cadere la maschera, il messaggero gli disse: “Meriti una ricompensa”. E si affrettò ad aggiungere: “Hai solo un anno da vivere. Te lo dico perché ne tragga profitto. Metti ordine nella tua vita”.

“Eliezer abbandonò le sue attività commerciali per dedicarsi esclusivamente al servizio di Dio e così gli fu accordato un rinvio di venti anni. Ebbe cinque figli e due di loro divennero celebri: Zusia ed Elimelekh. Zusia fu attratto per primo dall’hassidismo e dovette faticare per trascinarvi suo fratello. Ma da quel momento divennero inseparabili. Insieme […] scelsero tre anni di esilio e di astinenza, insieme percorsero le borgate e i villaggi polacchi […]. Lungo il loro cammino, dice una leggenda, tracciarono le frontiere del regno hassidico. Entrarono a farne parte solo i luoghi che figurano nel loro itinerario. Presso Cracovia si fermarono in un borgo sperduto, ma non poterono restarvi neppure un’ora. Spinti da una forza occulta se ne andarono al crepuscolo. Molto tempo dopo, quel luogo sarebbe entrato nella storia ebraica per cancellarla: con il nome di Auschwitz».

Verso la Giornata della Memoria, è utile ribadirne una delle possibili accezioni: memoria in quanto ricorrenza, immanenza e avvertenza e dunque, propriamente, una memoria al futuro. Non si può fare a meno di interrogarsi sulla memoria sociale e sulla memoria collettiva: non solo “persistenza” della memoria, ma soprattutto “attualizzazione” nel presente, in quanto la memoria collettiva definisce le ragioni culturali del presente, imbastisce le pratiche rituali che la diffondono e alimenta per questa via la speranza di futuro. Ce lo ricorda, tra gli altri, Yosef Hayim Yerushalmi, nel suo saggio dedicato a “Zakhor: storia ebraica e memoria ebraica” (pubblicato dalla Giuntina di Firenze nel 2011).

Ripercorrere dunque questa “singolare unicità” della Shoah, il tragico precipizio di orrore e di morte che il nazismo ha consegnato alla storia europea, l’epopea gloriosa della sconfitta del nazismo e del fascismo, della lotta di resistenza antifascista e della liberazione nazionale, con il ruolo indiscutibile delle forze democratiche, socialiste e comuniste ai quattro angoli del continente, significa consegnare questa narrazione alla sfera della memoria attiva, agente, operosa. E comporta, al tempo stesso, riconoscere il carattere di questo impegno politico e culturale insieme, contro la solitudine e contro l’ingiustizia: non avrebbe senso una ricorrenza della memoria e un impegno contro l’ingiustizia, senza una lotta contro le oppressioni del nostro tempo e per l’autodeterminazione dei popoli, dalla lotta del popolo saharawi alla resistenza del popolo palestinese, e contro le mille guerre in corso, dalla Libia alla Siria allo Yemen.

È una consegna di impegno attivo, democratico e antifascista, nel presente. Come indicato nel comunicato dell’ANPI, non “una pur necessaria celebrazione, una banalizzazione di un evento mostruoso per l’umanità, bensì … un momento di riflessione coinvolgente, la base di un messaggio di civiltà, antifascismo e democrazia, che proviene dal sangue dei campi di concentramento. La chiamiamo memoria attiva, perché il ricordo non ha senso se non si esercita la sua portata educativa nel presente. Ogni giorno, ogni incontro, ogni impegno, ogni battaglia”. Non a caso, la data della Giornata della Memoria è il 27 gennaio, il giorno in cui, nel 1945, l’Armata Rossa nella sua avanzata liberò il campo di Auschwitz.