Le tappe della tragedia di Srebrenica sono ben note. Dal 16 Aprile 1993, la Risoluzione 819 rafforza la presenza del peace-keeping militare delle Nazioni Unite nelle città e nelle aree limitrofe; dal 6 Maggio 1993, la Risoluzione 824 istituisce le «zone protette» nell’area di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać e Srebrenica; dal 4 Giugno 1993, la Risoluzione 836 autorizza l’uso della forza per la scorta degli aiuti umanitari e la difesa delle «zone protette» in Bosnia. Sebbene delimitata e demilitarizzata dopo gli scontri che già vi si erano registrati tra il 1992 e 1993 e dopo la promulgazione delle Risoluzioni ONU, le milizie bosniaco-musulmane, sotto il comando di Naser Orić, continuavano a tenere armi all’interno della zona protetta a dispetto di quanto sancito dall’accordo di cessate il fuoco: le rappresaglie e le stragi da questi ordinate contro i villaggi serbo-bosniaci, tra le quali l’eccidio di Kravica, nella notte del 7 Gennaio 1993, in occasione del Natale Ortodosso, assunsero il carattere di una vera e propria pulizia etnica, con stime che, a seconda delle fonti, variano tra i 705 e i 3.200 serbo-bosniaci uccisi tra il 1992 e il 1995.

Se rispondeva al fine di sfollare le enclavi musulmane nel territorio a maggioranza serba della Bosnia Orientale, l’eccidio di Srebrenica maturò anche come reazione alle stragi precedenti da parte bosniaca musulmana e si inscrive nella logica perversa della campagna contrapposta di pulizia e contro-pulizia etnica. L’esercito serbo-bosniaco, sotto il comando di Ratko Mladić, entrava in città l’11 Luglio 1995. I morti furono migliaia, le cifre stimano le vittime tra le 3.568 (delle perizie analitiche dell’ICTY al 2001) e le 8.372 (dell’elenco del Memoriale di Potočari al 2015), la gravità dei fatti è innegabile. L’insieme degli eventi e la pulizia etnica avente epicentro a Srebrenica restano, senza dubbio, tra le pagine più sconvolgenti del nostro tempo.

Nel giro di sei mesi, la guerra di Bosnia finisce e comincia la lunga stagione, non ancora conclusa, della «pace fredda» e della «costituzionalizzazione» dei rapporti sul campo, sia in termini di acquisizioni territoriali, sia in termini di separazione in entità mono-etniche autonome. L’accordo, stipulato a Dayton (Ohio) il 21 Novembre 1995, sancisce l’intangibilità delle frontiere esterne sulla linea di confine fra le repubbliche ex-jugoslave e la divisione interna della Bosnia (BiH) in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio, 10 cantoni e 92 municipalità) e la Republika Srpska (49% del territorio, 7 regioni e 63 municipalità), al cui interno si staglia il distretto autonomo di Brčko. Le due entità sono entità statali a tutti gli effetti, dotate di poteri autonomi, salvo la politica estera, la difesa e la moneta.

Nel 2015, in occasione del ventennale, nella seduta convocata per commemorare il ventesimo anniversario delle uccisioni e della pulizia etnica di Srebrenica, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite respinge, con il voto contrario della Russia, una risoluzione, fortemente promossa soprattutto dalla Gran Bretagna, con l’obiettivo di sottolineare che i tragici eventi potevano e dovevano essere qualificati come “genocidio”, definizione, nel caso di Srebrenica, controversa, e come prerequisito per la riconciliazione nazionale in Bosnia Erzegovina; nonché al fine di riaffermare l’importanza delle lezioni apprese dai limiti mostrati dalle Nazioni Unite nel prevenire l’eccidio e la sua determinazione ad adottare azioni efficaci per prevenire il ripetersi di tragedie di tale natura attraverso i mezzi a propria disposizione.

Significativa la motivazione addotta dal rappresentante russo in Consiglio, Vitaly Churkin, che rimarcava come la Russia abbia sempre «chiesto indagini sui crimini commessi contro tutte le comunità etniche durante il conflitto nei Balcani. Il mondo ha l’importante compito di costruire pace, riconciliazione e stabilità nella regione ricordando il processo di pace di Dayton. La Russia accetta una risoluzione commemorativa basata sull’esigenza di andare avanti. Tuttavia, il progetto britannico è stato presentato in modo da cercare di attribuire la colpa a una sola comunità. […] Il ruolo del Consiglio è di rafforzare la pace e la sicurezza internazionali; lasciare quindi che gli storici giudichino gli eventi e che i tribunali emettano i verdetti. L’adozione di un documento non costruttivo, in un momento simile, sarebbe controproducente, con ciò invitando i proponenti a non metterlo ai voti. Altrimenti, la Russia sarebbe stata obbligata a votare contro. Tale posizione, tuttavia, non sminuisce in alcun modo la sensibilità del Paese nei confronti del dolore delle vittime». Esattamente la tesi strumentalmente sostenuta, invece, dalla rappresentante USA, Samantha Power, per la quale sarebbe opportuno paragonare «i negazionisti del genocidio di Srebrenica ai negazionisti dell’Olocausto, poiché il rifiuto di riconoscere tali crimini non solo ferisce le vittime, ma la riconciliazione stessa». Una posizione “strumentale” nei confronti delle vittime, di tutte le vittime, della guerra di Bosnia, ma anche un esempio della pratica impossibilità di costruire una memoria “condivisa” di fronte ai gravi eventi della storia, quando, citando il Manzoni, «la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro».