Nel 1960, 17* Stati africani ottengono l’indipendenza. Le aspettative sono enormi in tutto il continente. Ma il contesto internazionale impone subito i propri vincoli: neocolonialismo, Guerra fredda, globalizzazione neoliberale pesano sui nuovi stati, mentre il continente si confronta con una rapida crescita demografica e un’urbanizzazione incontrollata.

Qual è il bilancio degli ultimi sessant’anni? Le indipendenze hanno mantenuto le loro promesse? Come si è evoluta la condizione politica ed economica? In che modo si sono trasformate le società civili? Le donne e i giovani hanno trovato un loro posto?

Pressenza ha incontrato e intervistato Amzat Boukari-Yabara, docente presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (Scuola di Studi Superiori in Scienze Sociali), storico e attivista panafricano.

Questa prima parte è dedicata all’analisi della questione politica.

*Benin, Burkina Faso, Camerun, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Repubblica Gabonese, Mali, Madagascar, Mauritania, Niger, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Senegal, Somalia, Ciad, Togo.

In molti di questi Paesi, i governi eletti sono in vigore, almeno formalmente. Ma la storia politica dell’Africa non è mai stata pacifica.

Come si è evoluta la democratizzazione politica a partire dalle lotte per l’indipendenza?

A partire dal 1945, i deputati africani vengono eletti direttamente a Palazzo Bourbon. I movimenti politici e sindacali africani, tra cui il Raggruppamento democratico Africano (RDA), sono affiliati ai partiti politici francesi. Il rapporto colonizzatori-colonizzati coniuga legami sociali e ideologici. La politica francese di assimilazione delle nuove élite africane si sviluppa parallelamente alla preparazione del trasferimento dei poteri nella legge quadro Defferre nel 1956 prima e nel referendum sulla Comunità franco-africana (1958) che ha fondato la Quinta Repubblica poi. Tale referendum fu poi bloccato per ottenere la vittoria sul mantenimento delle colonie all’interno della Comunità.

Per evitare la vittoria del partito filo-indipendente Sawaba [2], Parigi invia in Niger un governatore specializzato in brogli elettorali. Va sottolineato che le elezioni si erano già svolte in Africa sotto la colonizzazione francese, ma che l’amministrazione coloniale aveva riportato i risultati solo secondo i propri interessi. Il colonialismo, per definizione, si è sempre opposto all’esercizio della sovranità africana anche quando questa soddisfaceva i criteri democratici. La decolonizzazione non è stata una vera democratizzazione della politica africana: la Francia ha cercato di preservare i propri interessi ponendo al potere uomini che li difendessero contro quelli del popolo. Il neocolonialismo permette di comprendere l’attuale ingerenza della Francia nei processi elettorali africani e il motivo per cui il termine “democrazia” assume un significato in Francia rispetto alle ex colonie.

Nel 1960, ad eccezione della Guinea di Sékou Touré (respinse il referendum del 1958 e fu boicottata dalla Francia) e in misura minore del Mali di Modibo Keita, la Francia decise di trasferire i poteri a dirigenti cooptati che, in alcuni casi, si erano battuti in prima persona contro l’indipendenza. Sia il presidente ivoriano Félix Houphouët-Boigny che quello senegalese Léopold Sédar Senghor incarnano perfettamente questa linea collaborazionista. Nella Repubblica Gabonese, il presidente Léon M’Ba spera addirittura di fare del suo Paese un dipartimento francese. In Camerun, invece, si arriva a una guerra tra l’esercito francese e i nazionalisti dell’Unione delle Popolazioni del Camerun che chiedevano alla Francia di fissare il termine per l’indipendenza, nel rispetto degli impegni assunti in sede Onu. Gli upecisti [3], alla stregua degli altri gruppi africani che si sono battuti per l’indipendenza, sono stati eliminati politicamente o fisicamente prima di averla ottenuta, o anche dopo come nel caso del presidente togolese Sylvanus Olympio e del primo ministro congolese Patrice Lumumba. La loro eliminazione era interesse sia delle ex potenze coloniali, che degli attori locali africani e delle multinazionali. Contrariamente all’idea di indipendenza pacifica, il desiderio della Francia di rimanere presente nel quadro degli accordi di cooperazione ha comportato una serie di episodi di violenza.

Al suo interno, la vita politica africana è stata segnata da un’etnicizzazione del potere e da una chiusura attorno alla cerchia presidenziale. Il partito unico, di obbedienza marxista, nazionalista o liberale, ha ricevuto l’incarico di costruire l’unità nazionale e di sorvegliare eventuali azioni sovversive. In effetti, in diversi Paesi si sono verificati diversi colpi di stato militari. Nel 1975, l’indipendenza dell’Angola e del Mozambico, poi quella dello Zimbabwe nel 1980 hanno rappresentato le ultime battaglie contro il regime dell’apartheid in Sudafrica. Negli anni Ottanta, questi regimi hanno vacillato sia a causa di programmi di riassetto strutturale che della fine della locazione geostrategica legata alla Guerra fredda. Si è allora assistito a un’apertura verso un sistema multipartitico, ad alcuni cambiamenti e a nuove libertà politiche.

Su questo punto, il discorso di La Baule del presidente Mitterrand del giugno 1990, che intendeva dare avvio a una nuova era democratica in Africa, fu preceduto dalla Conferenza Nazionale del Benin. Nel febbraio 1990, questo Paese, un tempo fautore di colpi di stato e reduce da quasi vent’anni di dominio militaristico-marxista, diede il via a una rivoluzione politica grazie a una prima Conferenza Nazionale, alla quale seguirono altre conferenze nazionali, organizzate dal 1990 al 1993, in una ventina di Stati. Nell’aprile del 1994, Nelson Mandela vinse le prime elezioni multirazziali in Sudafrica. A partire dagli anni Novanta, quasi tutti i Paesi africani sono entrati in un regime formale di democrazia liberale. Si svolgono le elezioni, alcune anche con un buon successo ed esiste anche un’opposizione più o meno attiva. I militari sono sempre meno inclini a colpi di stato. Tuttavia, permangono difficoltà dovute alla mancanza di alternanza, alla presa di potere da parte di clan o di dinastie, o alle ingerenze degli Stati stranieri.

Uno dei casi più eclatanti è l’intervento militare francese contro il presidente Laurent Gbagbo e a favore di Alassane Ouattara nel corso delle elezioni del 2010. Possiamo citare anche il caso del Mali, che ha subito una rinascita democratica all’inizio degli anni Novanta, salvo crollare vent’anni dopo. La democratizzazione della politica africana implica in parte la decolonizzazione della politica africana della Francia. Infatti, se da un lato le ex colonie francesi, giuridicamente sovrane, portano avanti una politica nazionale spesso attraversata da tensioni tra chi è al potere e chi è all’opposizione, la Francia detiene ancora il controllo sugli strumenti della sovranità globale. Parigi controlla la politica monetaria delle sue ex colonie con il franco CFA stampato vicino a Clermont-Ferrand; interviene come “esperta” di questioni africane nelle riunioni del Consiglio di sicurezza; interviene militarmente in Africa, sotto ordine diretto dell’Eliseo e senza previo dibattito parlamentare, generando un forte contrasto con la società civile. La francofonia è molto presente anche negli spazi culturali africani, a discapito delle lingue e delle culture autoctone. Inoltre, i legami con le comunità africane in Francia fanno sì che il continuum coloniale si rifletta nelle questioni migratorie. Se neanche nel resto del vecchio continente le cose vanno benissimo, dove la vita politica è sempre molto accesa, non possiamo non sottolineare che Parigi continua a interferire pesantemente nella vita politica degli africani, restringendo ancora di più il loro spazio democratico.

Traduzione dal francese di Angelica Cucchi. Revisione: Ada De Micheli.

Note

[1] Questa legge porta il nome di Gaston Defferre, ministro della Francia d’Oltremare durante il governo socialista di Guy Mollet (1956-1957). Essa ha concesso una certa autonomia interna alle colonie africane.

[2] Il Movimento Socialista Africano Sawaba (o più comunemente: Sawaba) è un partito politico nigerino fondato nel 1954 da Djibo Bakary per la rivendicazione dell’indipendenza del Niger. È stato progressivamente marginalizzato dall’amministrazione coloniale, a favore del Partito Progressista Nigerino di Hamani Diori, primo Presidente del Paese.

[3] Gli upecisti sono gli attivisti dell’UPC, l’Unione delle popolazioni del Camerun. Partito filo-indipendentista, creato nel 1948, ha optato per la lotta armata nel 1953. Gli upecisti furono combattuti dall’esercito francese, poi da quello camerunense, sostenuto dalla Francia, a seguito dell’indipendenza del 1960. I metodi anti-insurrezionali utilizzati all’epoca ricordano quelli della guerra d’Algeria contemporanea.

Leggi anche:

Parte 2/5

Parte 3/5

Parte 4/5

Parte 5/5