Dallo scorso martedì 7 luglio sono scoppiate violente manifestazioni in Serbia, che stanno dando luogo da alcuni giorni a questa parte a una vera e propria ondata di protesta, la prima di queste dimensioni in Europa, strumentalizzata da alcune frange in chiave politica. In essa si mescolano fattori sociali e politici e una diffusa insofferenza sociale legata anche agli effetti della pandemia e all’annuncio di un nuovo lockdown.

Come è stato ricordato da Pressenza, domenica scorsa, 5 luglio, si è tenuta la ripetizione del voto politico in poco più di 200 seggi (sugli oltre 8.300) nei quali erano state riscontrate irregolarità in occasione del turno elettorale del precedente 21 giugno, quando si erano celebrate, in un vero e proprio «election day», sia le elezioni politiche, sia quelle amministrative. Lo stesso 5 luglio erano stati confermati anche i risultati delle elezioni, i cui dati significativi possono essere sintetizzati nei seguenti tre: una clamorosa vittoria del partito al potere, che esprime tra l’altro il Presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, il SNS, Partito Progressista Serbo, partito nazionalista e conservatore, con oltre il 60% del consenso; il fallimento della strategia del boicottaggio elettorale tentata dalle opposizioni, boicottaggio che non ha retto alla prova del voto e che alla fine ha visto diversi partiti di opposizione partecipare comunque alle elezioni; un significativo calo della partecipazione, con una affluenza al voto intorno al 50%, un dato molto basso, tuttavia non più basso delle molto meno contestate elezioni politiche in Croazia, dove, ancora domenica 5 luglio, si è recato alle urne per le elezioni circa il 46% degli elettori.

Poco più di 24 ore dopo, tuttavia, lo stesso Aleksandar Vučić annuncia il ripristino delle misure restrittive di contenimento della pandemia: il numero dei contagi è significativamente cresciuto nel corso delle ultime due settimane. Se il 1° giugno i contagi erano stati 11.430 e il 21 giugno 12.894, già il 30 giugno la cifra era salita a 14.564 e l’altro ieri, 8 luglio è stata superata la soglia dei 17.000, passando quindi da un andamento medio di aumento non superiore a 100 casi giornalieri a un andamento che negli ultimi giorni si va assestando intorno ai 300 – 350 al giorno, stando alle cifre riferite dagli osservatori dedicati.

Un primo intervento di lockdown aveva già avuto luogo in Serbia e già all’epoca non aveva mancato di suscitare interrogativi e critiche, sia in patria, sia, soprattutto, all’estero: tra la fine di marzo e l’inizio di maggio in Serbia erano state introdotte misure rigide, in una fase tra le più severe in Europa, tra cui il divieto di uscire di casa per gli anziani ultra-sessantacinquenni, un vero e proprio coprifuoco dalle 17.00 alle 5.00, esteso nei fine settimana, con ulteriore prolungamento, da 14 a 28 giorni, dell’isolamento per chi proveniva dall’estero. Dall’inizio di maggio, tuttavia, tali misure erano state allentate. Una delle critiche più dure attualmente indirizzate al governo non consiste tanto nell’allentamento in sé e nella tempistica da alcuni considerata sospetta, praticamente in concomitanza con il lancio della campagna elettorale e in corrispondenza delle elezioni di giugno, quanto soprattutto nel carattere pressoché repentino dell’allentamento.

Questo ha dato nel breve volgere di poche settimane la possibilità di organizzare tra i primi, e senza dubbio tra i più consistenti, eventi di massa del post-lockdown in Europa. Agli onori delle cronache sono saliti la semifinale della Coppa di Serbia, con la stracittadina di Belgrado tra Partizan e Stella Rossa, disputata a porte aperte alla presenza di circa 20 mila spettatori, peraltro nella ricorrenza particolarmente simbolica del 200° derby della capitale, lo scorso 10 giugno; ma poi anche l’Adria Tour, il torneo di tennis a carattere di esibizione organizzato da Novak Djoković, leader del ranking mondiale ATP, con una finalità di esibizione e di solidarietà, disputato alla presenza del pubblico e per il quale lo stesso Djoković è risultato positivo al coronavirus; ed infine gli stessi eventi della campagna elettorale per il voto del 21 giugno.

Martedì scorso, 7 luglio, il presidente Aleksandar Vučić ha annunciato di conseguenza la ripresa del lockdown: ancora una volta il coprifuoco a Belgrado, dalle 18.00 del venerdì alle 5.00 del lunedì, restrizioni agli assembramenti anche in luoghi pubblici, uso obbligatorio delle mascherine negli spazi chiusi. Proteste pacifiche si sono svolte in diverse città della Serbia, ad esempio a Novi Sad, a Niš, e nella stessa Belgrado; a queste hanno fatto da contraltare le violenze e le razzie di gruppi radicali e frange oltranziste (è stata notata la presenza di provocatori, ma anche di uno dei leader della destra radicale serba, Boško Obradović, leader del partito “Dveri”, protagonista delle violenze contro il Gay Pride a Belgrado del 2010 – nella foto – ), che hanno aggredito giornalisti e operatori della RTS (la televisione di Stato) e della Tanjug, e, prima ancora, nella notte di martedì 7 luglio, lo stesso Parlamento serbo, con una dura (talvolta durissima) risposta delle forze dell’ordine. Si mescolano l’insofferenza verso l’élite politica e la durezza delle misure del lockdown e una sempre più difficile situazione economica e sociale, ma non mancano tentativi o minacce di strumentalizzazione politica («Tutta la Serbia deve confluire a Belgrado, ora o mai», ha scritto lo stesso Obradović sul suo profilo Twitter), che riportano alla memoria scene già viste e che paventano il rischio della “spallata” da destra e stavolta dall’estrema destra.