Emergenza coronavirus e crisi climatica e ambientale. Ne parliamo con Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana e giornalista scientifico per RAI e Il Fatto Quotidiano.

 L’emergenza climatica è sparita dal dibattito pubblico e dai mass media. Si parla solo del coronavirus. Cosa possiamo fare per riportare già adesso il clima in primo piano?

Secondo me non è il momento. L’uomo ha una capacità ridotta di confrontarsi con i problemi. Adesso ne abbiamo uno talmente grosso che dobbiamo rimandare a un altro momento, quando la tensione sarà, speriamo, diminuita. Quindi, strategicamente da un punto di vista comunicativo non insisterei sulla questione climatica e ambientale, se non mantenendo un livello di analogia, ovvero limitandosi a dire: impariamo bene da questa lezione per gestire le successive crisi. Manteniamo, via via che le occasioni di attenzione si presentano, questo aspetto dell’analogia, ma per il momento non andrei a creare psicologicamente un’ulteriore pressione, perché sarebbe il modo migliore per non farsi ascoltare.

Diversa è la questione dal punto di vista dei decisori. A livello di strategia politica, se devo parlare con un’Unione Europea è ovvio che lì bisogna invece mantenere vivo il tema, perché le decisioni istituzionali pesano sul lungo periodo e quindi non è perché c’è il virus che l’Unione Europea per esempio debba dimenticarsi del Green Deal. Nel momento di fare una strategia economica di riaccensione del sistema dopo questa pausa forzata, lì sì che è importante che la politica non commetta gli errori del passato, nel tentativo di riguadagnare il terreno perduto e abolendo certe restrizioni ambientali. C’è la tentazione di dire: il PIL è sceso, abbiamo perso un sacco di soldi. Quando finalmente la questione del virus si chiuderà, partiamo con l’acceleratore al massimo. Il petrolio è sceso di prezzo, ricominciamo a consumare più di prima. Questo è il rischio politico. Bisogna invece tenere la barra ferma è dire: si riparte, ma a maggior ragione con la prospettiva del Green Deal.

Come si fa a rinunciare all’automobile (o almeno limitarne l’uso) in un paese come l’Italia dove fuori dalle aree urbane il trasporto pubblico è pessimo?

Questo potrebbe essere un tema molto importante da valutare per la nostra ripresa. L’esperienza del virus ci sta facendo capire che cosa è veramente importante e che cosa è superfluo. Per esempio il telelavoro che abbiamo imparato a usare in modo efficace nel giro di pochi giorni, potrà sostituire a mio parere anche in una situazione di piena normalità molti viaggi di lavoro. Lo teorizzavo già prima del virus. Io spero che questa eredità possa essere mantenuta, perché eliminerebbe molti movimenti inutili con l’automobile, ma anche col treno e con l’aereo.

Il secondo punto riguarda invece la mobilità privata. Io credo che sia importante in questo momento di chiusura forzata recuperare che cosa è per noi veramente importante e che cosa no. Oggi è importante per noi poter fare un chilometro di passeggiata, non diecimila chilometri con l’aereo per andare a fare le vacanze nelle isole del Pacifico. Penso che si possa recuperare un messaggio di socialità, di convivio, di qualità della vita. Penso che questi siano dei modi per maturare delle rinunce che prima erano inaccettabili. Se io dicevo: non fate le vacanze con l’aereo lontano, ci sono mille posti belli vicino a casa vostra, mi ridevano tutti in faccia. Io ho sempre fatto così, non prendo più l’aereo da due anni ormai. Non sono mai stato un viaggiatore compulsivo sulle lunghe distanze. Ritengo che sui trasporti avremo queste due ricadute: telelavoro e una riduzione degli spostamenti di lungo raggio per motivi futili, capendo che ci si può divertire e avere una buona qualità della vita anche solo andando al bar della piazza.

Che legame vedi tra disastro ambientale e coronavirus?

Il legame è il disturbo degli ecosistemi. Si sa che i virus passano dagli animali selvatici all’uomo in modo casuale, ma è chiaro che più aumentiamo la nostra invasione negli ecosistemi intatti naturali, soprattutto nelle foreste e più aumentiamo la probabilità del salto di specie. Poi ci sono anche gli allevamenti, di sicuro ci sono queste due vie. Io parlo soprattutto degli animali selvatici perché lì andiamo a toccare le ultime aree intatte del pianeta. Invece nelle zone già compromesse i grandi allevamenti intensivi rappresentano la seconda via di possibili contagi. L’inquinamento dell’aria per ora non è una pista realistica per la trasmissione del virus, se non quella di predisporre le persone che già hanno i polmoni irritati a diventare più sensibili. Ma non è una cosa diretta. Che l’aria inquinata possa essere un vettore del virus è stato messo in dubbio da molti miei colleghi. Non si sa nemmeno quanto a lungo il virus possa vivere fuori dal corpo umano. Qualcuno dice non più di 3 ore. E’ molto prematuro fare un’osservazione così netta. Che invece l’inquinamento faccia male, questo lo sappiamo, anche senza virus. Quindi è opportuno ridurlo per altri motivi.

Una domanda più personale: come hai reagito a questa situazione destabilizzante provocata dall’emergenza sanitaria? Come passi le giornate chiuso in casa?

Dieci anni fa ho scritto un libro dal titolo “Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza … e forse più felicità”. Ho quindi sempre investito nella mia vita per l’autonomia e la resilienza individuale. Ho la fortuna di stare in una casa con un piccolo orto, ho l’alimentazione energetica a pannelli solari, una buona dispensa di riserve che mi tengo sempre per questi casi. In un mese non ho ancora fatto la spesa al supermercato. Ho quindi costruito questa resilienza. L’emergenza mi ha però sorpreso per un altro motivo, perché ho sempre messo in pratica questa autosufficienza in previsione di problemi legati al clima, legati all’energia, mentre la pandemia non l’ho mai considerata, non era nel mio elenco dei rischi più gravi.

Per lavoro, per le mie conferenze e lezioni ho sempre viaggiato, anche 150 giorni all’anno. Adesso è tutto virtuale, quindi la mia agenda si è ripulita. E’ chiaro che ho perso anche una parte economica, perché le mie attività pubbliche che erano pagate non ci sono più, quindi ho dimezzato il mio guadagno e soprattutto quello destinato al mio gruppo di ricerca. C’è solo la parte che riesco a fare da casa, scrivendo un articolo di giornale, facendo una videoconferenza, ma non posso andare in giro. Ho fatto decrescita, dimezzando anche le mie spese: non ho più bisogno di andare in macchina o in treno, o di comprare vestiti, il papillon nell’orto non lo metto! Se in casa hai un po’ di autosufficienza energetica e alimentare, si vive veramente con poco. Certo, devo pagare le tasse, spero siano ben spese per i nostri ospedali e non per grandi opere inutili. Per il resto mi accorgo che io e mia moglie abbiamo bisogno di pochissimo. Ci bastano i libri e internet, ci basta la legna per la stufa. Il tempo recuperato è una ricchezza. Certo, c’è sempre la cappa di tristezza per i morti; sarebbe stato meglio ridurre i giri del nostro sistema non per effetto di un disastro…

Ultima domanda: una nota di ottimismo? L’umanità avrà l’intelligenza di agire con forza sul cambiamento climatico senza aspettare il disastro?

Solo se avremo una forte leadership, perché l’altra lezione data da questa esperienza del virus è che se non c’è una guida, spontaneamente ognuno di noi non le fa queste cose. L’importante è che ci sia una visione razionale, basata su fatti scientifici. Tutti noi abbiamo accettato la chiusura a casa nostra perché abbiamo capito il motivo, abbiamo avuto paura della morte, della malattia. Anche per il clima abbiamo bisogno di una guida, non possiamo fare queste cose in ordine sparso. Allora la guida dice: da domani si sta a casa, e si fa. Quindi ci vuole un forte recupero della politica ambientale. Speriamo che la ripartenza sia fatta usando questi nuovi percorsi di futuro senza riaccendere tutto come prima, altrimenti non sarà servito a nulla.

Vorrei aggiungere un altro elemento importante:  siamo tanto preoccupati di come l’economia subirà danni da questo momento, ma ci basterebbe convertire tutte le spese militari in tecnologie per la sostenibilità e avremmo risolto i nostri problemi. Non possiamo più tollerare che miliardi di dollari vengano spesi per produrre armi. Non ha nessun senso. Si dice che fare la conversione energetica e produrre pannelli solari costa troppo, ma quanto costano i missili nucleari?