Mentre scrivo questo testo, sono trascorse ormai 48 ore dalla sparizione di Ibrahim Metwaly, l’avvocato egiziano che la mattina del 10 settembre avrebbe dovuto imbarcarsi su un volo in partenza dal Cairo con destinazione Ginevra.

A Ginevra, Metwaly avrebbe dovuto incontrare il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie.

Non è insolito che, mediante divieti d’espatrio permanenti o arresti all’interno degli aeroporti, le autorità egiziane impediscano ai difensori dei diritti umani di prendere parte a incontri all’estero. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più grave.

Metwaly è almeno la quarta persona che paga le conseguenze di essersi occupato della sparizione, della tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni. Collaboratore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (l’Ong che fornisce consulenza ai legali della famiglia di Giulio), promotore e coordinatore della campagna “Stop alle sparizioni forzate” e membro della “Associazione delle famiglie degli scomparsi”, Metwaly si occupa da anni di questa violazione dei diritti umani che, sotto al-Sisi, ha raggiunto dimensioni quotidiane e che ha colpito anche suo figlio Amr Ibrahim, di cui non si hanno notizie dal 2013.

Tutto questo accade alla vigilia dal ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. Dopo che l’Italia ha formalizzato la sua decisione (che nulla ha a che fare con la ricerca della verità per Giulio), il sito della Commissione egiziana per i diritti e le libertà e quello di Human Rights Watch sono stati oscurati dopo la pubblicazione di due rapporti, rispettivamente sulle sparizioni e sulle torture.

Quanto sta accadendo a Metwaly testimonia una volta di più che il governo egiziano non è disponibile a parlare e a far parlare di diritti umani. Al governo italiano sta bene così?