Ad un tratto la grande America, quella che aveva inventato la globalizzazione per permettere alle proprie imprese di conquistare il mondo, ha scoperto che la concorrenza globale non è poi così conveniente e vuole tornare alla politica commerciale vecchia maniera, quella che per semplicità è definita protezionista, anche se  alla prova dei fatti è un ibrido che chiede obbligo di apertura per gli altri e diritto di chiusura per sé.

L’incredibile è che il cambio di rotta è capitanato da un esponente di spicco del capitalismo americano con l’appoggio della middle class nazionale. Persone, è vero, convinte del motto “lavora-guadagna-consuma”, ma pur sempre lavoratori che hanno pagato lo scotto della concorrenza con i colleghi cinesi e messicani, sotto forma di disoccupazione e di riduzione salariale.

Ma il guaio è che di fronte al tradimento, invece di rispolverare il senso di classe e formare un fronte   universale a difesa di salari e diritti, hanno preferito la scorciatoia nazionalista che li ha portati, dritti dritti, fra le braccia di quel pezzo di capitalismo americano che si sente più a suo agio dietro la protezione dei dazi doganali che in balia della globalizzazione aperta. Un tipo di alleanza che si fa sempre più strada anche in Europa, a giudicare dall’emergere di movimenti di destra estrema come la Lega di Matteo Salvini o il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, salvo vedere che piega prenderanno altri movimenti al momento non ben posizionati sul piano sociale ed economico.

E siccome il collante è il nazionalismo, ossia “che nessuno tocchi la nostra roba”,  non deve sorprendere se la strategia comunicativa si basa sull’attacco congiunto a imprese straniere e immigrati, con particolare aggressività verso questi ultimi, già vissuti dall’opinione pubblica come gli usurpatori dei nostri posti di lavoro e del nostro welfare.

In conclusione il  panorama politico internazionale si va caratterizzando per la presenza di due schieramenti. Da una parte quello neo-liberista, che professando l’apertura ai mercati è più disponibile   anche al movimento delle persone, almeno formalmente. Dall’altra quello neo-protezionista, che professando la chiusura in ambito economico, si oppone drasticamente anche all’ingresso degli stranieri. A causa di questo diverso atteggiamento nei confronti degli immigrati, generalmente l’atteggiamento liberista è ritenuto più progressista, ma non sono pochi coloro che guardando le cose dal lato del lavoro vedono con maggior favore l’atteggiamento protezionista. Recentemente ho ricevuto commenti da parte di amici di indiscussa sensibilità sociale, che attribuiscono più meriti a Trump che al sindacato.

Dal mio punto di vista la scelta fra neo-protezionismo o neo-liberismo è una questione tutta interna al capitalismo, che rigetto in blocco. Volendo usare una metafora, non mi faccio trascinare nella disputa se sia meglio derubare i passanti con destrezza o con uno spintone. I passanti non vanno semplicemente derubati. Venendo al piano economico, dobbiamo cominciare a dire basta a modelli economici che ci costringono alla guerra fra poveri. Al contrario dobbiamo rivendicare nuove relazioni economiche, che garantiscano a tutti gli abitanti del pianeta di poter vivere dignitosamente. Il che non può essere raggiunto con le stesse strategie capitalistiche che hanno generato lo squilibrio, ma con altre logiche e altre scelte.

La mia ricetta di riequilibrio passa per una maggiore e diversa regolamentazione commerciale internazionale, in modo da garantire prezzi equi e stabili ai piccoli produttori dei paesi deboli, regole commerciali che impongano il rispetto dei basilari diritti dei lavoratori ovunque nel mondo, più cooperazione orientata a risolvere le  gravi deprivazioni umane, più fiscalità tesa a scoraggiare il consumo di risorse e produzione di rifiuti nei paesi opulenti, ovunque più intervento pubblico per garantire in ogni angolo del mondo un tipo di produzione che privilegi la soddisfazione dei bisogni fondamentali di ogni cittadino.

Dobbiamo smettere di pensare che la ricchezza possa essere prodotta solo dagli imprenditori privati per il mercato.  Il mercato è una formula che si basa sul principio “mors tua vita mea”, ossia “mi espando nella misura in cui riesco ad invadere i mercati degli altri”. E i risultati li vediamo: pur di ottenere un po’ di occupazione preghiamo che le nostre imprese riescano ad espandersi all’estero, ossia che riescano a generare disoccupazione altrove. Questa impostazione va bene per i mercanti che vedono gli esseri umani solo come salari da contenere o borselli da saccheggiare al supermercato, ma considerata dal punto di vista delle persone è follia allo stato puro. Vista dalla parte delle persone ciò che dobbiamo raggiungere è la possibilità per tutti di poter soddisfare almeno i bisogni fondamentali nel rispetto dei limiti del pianeta. Che significa rafforzamento, ovunque, dell’economia pubblica non orientata a produrre per mercati lontani, ma per soddisfare direttamente i bisogni dei propri cittadini. La comunità imprenditrice di se stessa che si organizza sul piano produttivo per rispondere ai bisogni dei propri cittadini è una delle risposte chiave per garantire occupazione e sicurezza di vita senza fare violenza agli altri popoli. E contemporaneamente più equità fiscale, più regolamentazione bancaria e finanziaria, più accordi internazionali ispirati alla cooperazione e alla difesa dei diritti. “Globalizzazione dei diritti” si gridava a Genova nel 2001. Questo continua ad essere il mio slogan.

Per concludere, credo che solo recuperando chiarezza sui principi, potremo trovare vere soluzioni per il genere umano, altrimenti ci rinchiuderemo negli spazi angusti dei nazionalismi vecchia maniera, dove la guerra per la supremazia dei mercati si farà anche con i cannoni. E siccome a me non piace né la violenza economica, né quella bellica, rivendico il diritto di non appiattirmi sulla visione degli aguzzini-mercanti, per attuare altre formule economiche, totalmente nuove, al servizio della persona.