27.09.2016 – Antonia Utrera

Di Lorena Medina e Antonia Utrera.

Lo scorso 13 settembre, al suo passaggio per Barcellona e grazie all’intermediazione di Imago-Catalunya, abbiamo incontrato José Arley, direttore alle politiche pubbliche del comune di Medellín, e Mauricio Herrera, assessore anch’egli alle politiche pubbliche dello stesso comune, per parlare con loro della Colombia e del processo di pace che si sta svolgendo nel paese.

I nostri ringraziamenti a Imago-Catalunya e alla Libreria la Central di via Mallorca in Barcellona, luogo in cui si è svolta l’intervista.

“Le vittime arrivano all’Avana ed esigono tanto dallo stato colombiano come dalle FARC che non si alzino dal tavolo finchè non si siano realmente accordati sulla fine del conflitto”

La popolazione colombiana subisce da 54 anni la violenza armata, tanto dalle FARC-EP, le forze armate rivoluzionarie, come dai gruppi paramilitari di estrema destra. Dal 2012, con il governo di Juan Manuel Santos, che fu ministro della difesa nel precedente governo di Álvaro Uribe, sono iniziati i negoziati per il processo di pace. Il prossimo 2 ottobre i colombiani sono chiamati alle urne per decidere Si o No all’accordo di pace firmato.

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José Arley, direttore delle politiche pubbliche del Comune di Medellín.

Foto: Pedro Muñoz

Dopo quattro anni di negoziati, lo scorso 23 giugno 2016 si firma all’Avana l’Accordo di pace.

Non possiamo dire che questo processo sia durato quattro anni. In realtà, tutti i governi, a partire dal 1982, hanno cominciato dei processi di negoziazione con gli insorti colombiani. Da allora ciascuno di essi ha cercato di risolvere il conflitto armato a partire dal dialogo. Lo stesso governo del presidente Álvaro Uribe, con la sua politica, ha permesso di ottenere che tanto le FARC come il governo comprendessero che nessuna delle parti avrebbe vinto la guerra, né lo stato colombiano, né le FARC. E’ molto importante che comprendiamo che senza quella politica, cominciata con il governo di Belisario Betancour nel 1982 e fino allo stesso governo di Álvaro Uribe, senza quella politica che ha cercato di giungere a un accordo, non sarebbe stato possibile arrivare fino qui. Questo ha permesso che tanto il governo colombiano come le FARC comprendessero di non poter alzarsi dal tavolo senza avanzare e senza definire davvero degli accordi fondamentali per il popolo colombiano.

Cosa c’è di diverso in questa occasione rispetto ai tentativi precedenti?

Il momento storico e il momento politico. Da una parte, il governo si siede al tavolo una volta deciso che la politica di confronto con le FARC che era andata sviluppandosi non ha dato i risultati sperati, e che non sarebbe stato possibile nè sconfiggerli militarmente, nè farla finita o sterminarli. Lo stesso per le FARC, dopo tutti i golpe militari che sono stati fatti, dopo che le persone più rappresentative delle FARC sono cadute, comprendono che in effetti non c’è angolo le paese in cui possano essere al sicuro e in cui non gli possa accadere nulla. A questo si somma ciò che ognuno dei diversi governi ha imparato, lezioni che si vanno incorporando e adottando, e che hanno permesso infine di poter dire: “sediamoci al tavolo e non alziamoci finchè tutto non sia concordato e niente sia concordato finchè tutto non sia concordato”.

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Mauricio Herrera, assessore alle politiche pubbliche del Comune di Medellín.

Foto: Pedro Muñoz

Qual è la posizione delle vittime in questo processo di pace?

Le vittime arrivano all’Avana ed esigono tanto dallo stato colombiano come dalle FARC: “Voi, signori, avete fatto danni, ciò che avete fatto Dio non lo perdona, è stato estremamente spiacevole. Non potete alzarvi da questo tavolo finchè non abbiate realmente concordato la fine del conflitto”. Quell’esigenza di otto milioni di vittime è stata molto importante, perché non sono solo vittime dello stato, ma anche vittime delle FARC, e sono vittime dei paramilitari e di una violenza istituzionalizzata. Quindi, quando il clamore delle vittime giunge lì, all’Avana, ai signori seduti al tavolo, a questi attori viene detto: “Voi non vi alzate da qui finchè non arrivate a un accordo, perché questo conflitto va fermato. Voi avete la responsabilità di porvi fine perché voi siete quelli che lo avete iniziato. Non vi alzerete dal tavolo finchè gli accordi non saranno totalmente definiti”.

Dall’altra parte il contesto socio-economico…

Sì, anche le dinamiche capitaliste hanno portato alla cessazione della guerra in Colombia. Le imprese finanziarie, le multinazionali, gli impresari, hanno anch’essi a che vedere con il fatto che la Colombia voglia la pace, affinchè possa esserci libero scambio. In questo momento abbiamo un alto flusso di capitalismo. Di fatto, il modello economico colombiano è capitalista e il modello amministrativo è quello dei governi presidenziali, quindi questo fa sì che i due fattori si uniscano per cercare la pace.

E’ possibile la pace senza giustizia sociale?

Tutti siamo d’accordo sul fatto che gli accordi debbano essere firmati, che sia molto importante per il paese e per il mondo intero che in Colombia ci sia un cessate il fuoco bilaterale. Ma la pace è un’altra cosa, la pace è giustizia sociale, è risolvere le iniquità storiche che il paese ha sofferto. La disuguaglianza in Colombia è più dell’80%. Uno dei paesi dove ci sono più poveri e meno ricchi, dove la ricchezza è mal distribuita. La pace ha a che vedere con la giustizia sociale, con opportunità di impiego, con il fatto che quell’impiego sia giusto e ben remunerato, ha a che vedere con il fatto che la popolazione nel suo insieme possa avere accesso alla sanità. La pace ha a che vedere con le possibilità di educazione dei nostri giovani, affinchè abbiano la possibilità di entrare in un’università, non in un laboratorio o in un corso di sole 20 o 30 ore. La pace ha a che vedere con l’accesso alla casa e con il rispetto dell’ambiente naturale, le cui risorse sono saccheggiate in modo permanente e sistematico dalle grandi imprese minerarie internazionali. La pace ha a che vedere con il rispetto dell’ambiente.

Quindi, la firma di un accordo non è tutto…

No, la grande sfida dei colombiani è costruire la pace. Sebbene gli accordi siano importanti, che non ci accada quello che ha detto il comandante del fronte, Farabundo Martí, “noi centroamericani vinciamo la pace, ma perdiamo il post-accordo”. Quindi bisogna vincere il post-accordo e deve essere con la volontà di tutti i colombiani, ma anche della comunità internazionale, perché anch’essa si vede colpita nel suo insieme quando esistono conflitti di questa natura. La pace non si firma, si firma l’accordo dove si concorda la pace. La dignità umana è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico. L’aspettativa è se la firma di quell’accordo porti alla soluzione del problma sociale, che è più fondamentale del conflitto armato in Colombia.

E la corruzione?

Ci sono anche altri problemi fondamentali, come la corruzione. Non possiamo dire in Colombia non ci sia pace perché c’è la guerriglia. Ci sono altri elementi politici ed economici che hanno portato la popolazione alla disperazione totale: il sistema sanitario, il sistema pensionistico, l’educazione, l’aspetto culturale. Il problema della Colombia nel suo insieme è stato il clientelismo tradizionale. Quindi è ovvio che le due cose debbano andare insieme: una struttura valida nell’ordine pubblico e una politica sociale che il governo deve intraprendere affinchè i cittadini possano avere i servizi minimi per sviluppare il principio della dignità umana, che passa dall’integrità fisica e da un progetto di vita nel suo insieme.

“Il popolo colombiano nel suo insieme deve avanzare verso la riconciliazione”

Quindi come si costruisce la pace?

C’è un requisito per poter avanzare verso la pace, che è la “riconciliazione”. Il popolo colombiano nel suo insieme deve avanzare verso la riconciliazione, che implica ovviamente un’attitudine trascendente della vita. Non posso fare nulla per un essere amato che è stato assassinato. Guarda, è impossibile, non c’è denaro che possa ripagare una persona cara. Ma io, per poter avanzare come individuo ho bisogno di passare da un processo di riconciliazione con la persona o il gruppo armato di cui sono stato vittima. Noi colombiane e colombiani dobbiamo passare da una tappa che chiamiamo “cultura della pace”: risolvere i nostri conflitti in modo civile, con il linguaggio come mediatore del confitto, dove ci sia il riconoscimento dell’altro come diverso e dove esista il criterio della tolleranza, il rispetto della diversità; poter dialogare, discutere in modo fraterno i temi su cui non siamo d’accordo. Qui non si tratta di sconfiggere nessuno, si tratta di comprendere che la pace è un beneficio per tutti, di lavorare a un progetto comune dove esista la giustizia sociale, dove ci sia distribuzione della ricchezza, dove si avanza verso una maggiore equità sociale, una maggiore giustizia, maggiori possibilità di partecipazione democratica. Se non comprendiamo questo, sarà molto complicato,

La riconciliazione, il primo passo…

In Colombia abbiamo otto milioni di vittime. Noi come società dobbiamo riconciliarci, è il primo passo. Ma comprendiamo anche che la riconciliazione è qualcosa che non si determina per decreto. Non si dice: “Fatemi il favore, riconciliatevi e amatevi”, no. Noi che da tempo lavoriamo con le vittime ci siamo resi conto della generosità, per chiamarla in qualche modo, delle vittime. Le vittime in Colombia sono estremamente generose e così si sono espresse all’Avana quando si sono riunite con le FARC e con lo stato: “Noi siamo disposte a perdonare. Noi siamo disposte a voltare pagina rispetto a ciò che ci è accaduto”. Questa generosità delle vittime richiede una maggiore generosità rispetto agli assassini, alle persone e alla nostra classe dirigente, che c’entrano con ciò che di violento si è generato nel paese e nel conflitto.

Comprendere ciò che è accaduto?

La riconciliazione è una decisione assolutamente individuale, è più una decisione che parte dalla fede. Io comprendo che si tratta dell’azione di Dio in uno, che gli permette di personare la persona che ha assassinato, maltrattato, persino brutalmente violentato una persona cara. Per poter fare quel passo deve esserci una logica di tipo trascendente. Ovviamente non è possibile nessun processo di riconciliazione se non c’è verità, se non si dice alla gente perché è successo quel che è successo, cosa è accaduto, dove sono le proprie persone care. Se non c’è giustizia sociale, se diciamo punto e a capo e non cominciamo a generare processi sociali e di abitazioni, educazione, salute…

E memoria storica del conflitto…

In questo momento, perché ci sia riconciliazione, perché ci sia giustizia sociale, deve esserci una riparazione, no? Una riparazione piena in confronto al danno causato. In Colombia c’è stato un olocausto molto violento, molto sanguinoso. Non prendiamo solo le vittime della guerriglia, prendiamo anche le vittime dei paramilitari, anche loro fanno pare della realtà violenta e sanguinosa della Colombia, sono stati tra i maggiori attori che hanno crudelmente violentato la popolazione civile. Non dimentichiamo che le persone sono state seppellite in fosse comuni, sono state mutilate, le famiglie sono state violate, sfollate. Su questo non si può soprassedere perché costituisce un delitto di lesa umanità. Quindi bisogna fare un’altra riflessione per potersi riconciliare. La riflessione è che il governo nazionale, regionale e municipale, deve fare uno sforzo molto grande per rimediare, dal momento che ovviamente si tratta di una responsabilità diretta del governo nazionale. Perché in questo momento ci sono vittime della violenza paramilitare per cui non c’è stata riparazione, e ci sono anche sfollamenti e violenza intra-urbana. Bisogna tenere conto anche di questo per poter arrivare a una riconciliazione, a una verità, a una giustizia in Colombia.

Come rimediare a otto milioni di vittime?

C’è un punto degli accordi dove c’è un impegno di riparazione tanto delle FARC come del governo. Già nel 2011 il governo ha elaborato la Legge sulle Vittime e la Legge di Restituzione delle Terre, che ovviamente è avanzata, benché non ai livelli che la società colombiana auspica. E’ molto chiaro che ci sia una decisione, da parte delle FARC e dello stato, di generare processi e dinamiche riparatorie. Ma dobbiamo guardare alla dimensione di ciò di cui stiamo parlando. Si tratta di rimediare a otto milioni di vittime. Se prendiamo il caso argentino o quello cileno, parliamo di trentacinquemila, cinquantamila vittime, in un processo di dittatura. Ma qui stiamo parlando di otto milioni. Non c’è governo, non c’è esperienza che si possa mostrare al mondo, in cui la riparazione sia stata fatta con totale celerità, in modo rapido, e che sia stata una risposta totale all’insieme delle vittime. Bisogna farlo in modo deciso, con volontà politica, ma comprendendo che non accadrà dalla sera alla mattina. Si tratta di un processo lungo e l’insieme sociale deve impegnarsi affinchè le cose si diano in modo graduale, con maggiore celerità ma comprendendo che rimediare in modo complessivo e integrale costerà moltissimo tempo. In questo processo avremo bisogno dell’aiuto della comunità internazionale e questo è un fattore estremamente importante.

La città di Medellín può trasformarsi in un esempio per la pace?

La regione di Antiochia e la città di Medellín hanno la percentuale di vittime più alta di tutto il paese. Ha anche acquisito conoscenze, in processi di pace e convivenza, che sono stati un modello a livello nazionale e internazionale, finalizzate a dare assistenza alle vittime, ma anche alla popolazione sfollata nel suo complesso; perché il problema di uno sfollato o di una vittima non è soltanto di tipo economico, è anche un problema di tipo antropologico e culturale, quindi bisogna preparare le comunità affinchè ricevano in modo integrato una popolazione estranea e che in molti casi è vista come non gradita. Bisogna educare l’insieme della società. Il compito è enorme, quando diciamo che dobbiamo avanzare nella costruzione della pace, ma dobbiamo anche indicare che Medellín è una delle città che ha acquisito maggiori conoscenze in questo campo e che ha appreso di più.

“Il cittadino è diventato un soggetto protagonista, è diventato un interlocutore valido per l’amministrazione, in cui le politiche si definiscono, si costruiscono, si implementano e si valutano con cura e attenzione da parte della popolazione civile”

Qual è il ruolo della popolazione civile?

Sì, la grande sfida per le amministrazioni locali e regionali, ora, è come costruire una società nuova, un mondo diverso, a partire da ciò che sta accadendo L’amministrazione municipale ha alcuni programmi costruiti con grande attenzione dalla popolazione e dalla società civile, in cui essi stessi hanno identificato alcune linee generali; hanno portato l’amministrazione municipale a programmi e progetti in cui questa sta in contatto diretto e permanente con la popolazione e la società civile. Per questo lo slogan è “Medellín conta su di voi”, perché il cittadino è diventato un soggetto protagonista, è diventato un interlocutore valido per l’amministrazione, in cui le politiche si definiscono, si costruiscono, si implementano e si valutano con cura e attenzione da parte della popolazione civile. Non c’è niente di costruito in cui la società civile nel suo insieme non abbia partecipato in modo attivo e dinamico alla sua costruzione, implementazione e alla valutazione dei programmi e dei progetti. Nel corso di tutto il piano di sviluppo ciò che è stato fatto è stato intervenire in tutte le comunità, presentando i diversi programmi nei loro diversi aspetti, e la comunità stessa dava le possibili soluzioni, le proposte, dava le proprie posizioni, è così che si è costruito il piano di sviluppo con Federico Gutiérrez, l’attuale sindaco di Medellín.

Voi parlate di partecipazione diretta dei cittadini…

Il proposito è quello di uno sviluppo integrale, di un contatto diretto con il cittadino, renderlo partecipe dell’amministrazione, trattarlo con dignità, con giustizia sociale, perché tenere la porta chiusa è un modo per violentare i diritti umani, un blocco del cittadino rispetto all’amministrazione, e a Medellín questa porta si è aperta. E’ qualcosa di molto innovativo, di molto democratico, di molto partecipativo quello che il sindaco Federico Gutiérrez sta facendo. Il proposito è quello di uno sviluppo integrale con giustizia sociale, con slancio ma anche con sicurezza. I diritti umani, cioè, non si possono sviluppare se non c’è sicurezza, e questo è un altro dei propositi: che il governo, l’amministrazione municipale, abbia il controllo e si occupi dell’ordine pubblico, per poter garantire i diritti politici e civili dei cittadini. A partire dalla segreteria di inclusione sociale si vuole portare lo sviluppo all’interno del territorio, affinchè queste persone non tornino a far parte di gruppi armati, perché se queste persone entrano nel territorio e non trovano opportunità economiche, benefici sociali, se non trovano un ambiente democratico, pacifico, la cosa più probabile è che tornino a far parte di gruppi armati.

“Tenere la porta chiusa è un modo per violentare i diritti umani, un blocco del cittadino rispetto all’amministrazione”

E’ stato prospettato uno scenario ipotetico di incontro tra ex guerriglieri e paramilitari?

Non si è davvero prospettato quello scenario, ma se parliamo di pace, stiamo parlando di un patto sociale in cui l’ordine pubblico governi dal punto di vista costituzionale, rispettando la legittimità delle istituzioni. Da questo punto di vista, se tieniamo conto della tradizione storica di violenza in Colombia, sappiamo che i gruppi militari nascono dalla delinquenza sociale, e che la delinquenza nasce da cause sociali. A Medellín, ovviamente, c’è delinquenza sociale, ci sono gruppi armati che ora si fanno chiamare “Bacrim” (bande criminali). Questo panorama non si è prospettato, però la cosa migliore, dal punto di vista dell’ordine costituzionale e sociale, sarebbe che tutti i gruppi si disarmassero prima, perché si potesse dare una pace sociale. Questo sarebbe importante, ma in questo momento non si è prospettato.

Né vincitori, né vinti?

Il primo criterio per poter costruire la pace implica l’ottenimento del consenso, significa ascoltare quelli che hanno dubbi, perché lo hanno detto apertamente: “noi non siamo contro la pace, ma abbiamo riserve sul processo di negoziazione”. Vedete che non si tratta di un accordo perfetto. Questa è stata un’altra delle lezioni apprese: non sono mai esistiti accordi perfetti, perché ci sono sempre limitazioni abbastanza forti che rendono impossibile prendersi cura in modo integrale. Lì ci sono riserve serie e dal nostro punto di vista bisognerebbe ascoltarle, tanto dalla parte di quelli che stanno ponendo con il No, quanto da quella di chi sta ponendo con il Sì.

Qual è il ruolo della politica pubblica che promuovete?

In una democrazia deve esserci spazio per il consenso, ma anche per il dissenso. Se una società che ha come prospettiva la costruzione della pace non apre spazio al dissenso, possiamo dire che la costruzione della pace è impossibile. Se un significativo gruppo di persone resta scontento dei nuovi accordi, o viceversa, sarà molto difficile avanzare verso la pace. Bisogna vedere il plebiscito più come una possibilità di deliberazione pubblica, non possono esserci vinti né vincitori. Se c’è un settore importante che si vede come sconfitto, questo sarà un ostacolo alla costruzione della pace. Bisogna chiamare questo momento “Festa della Democrazia”, in cui non ci devono essere né vinti né vincitori. Con il plebiscito il presidente Santos sta garantendo il contraddittorio, e il fatto che sia il popolo a legittimare questa decisione. Non è una decisione politica, è un diritto costituzionale, il popolo, democraticamente, ha gli strumenti giuridici per questo. Il contraddittorio fa parte della libertà individuale, della partecipazione, della democrazia, è un diritto fondamentale. Dal punto di vista costituzionale il dissenso in Colombia è consentito.

Come si può garantire il processo di pace di fronte a un possibile cambio di governo?

Questa è una politica di stato, non di governo, la pace non è la politica di un determinato governo. Tutti i presidenti, dal 1982, hanno puntato e hanno contribuito a ciò che abbiamo oggi. Il governo attuale non è quello che ha magicamente risolto la situazione e che ha ispirato un accordo con le FARC, no, stiamo parlando di un processo storico. C’è una maggioranza di persone che ha deciso la ricerca negoziata del conflitto e la costruzione della pace in modo civile, grazie agli spazi democratici, indipendentemente dal governo di turno. La maggioranza della società colombiana ha deciso che l’alternativa ai conflitti che sono esistiti in Colombia deve essere la via del dialogo, è la popolazione civile la protagonista della pace, a partire dalle organizzazioni, al movimento studentesco, al movimento sindacale, alle donne organizzate, agli indigeni… E’ questo ciò che fa avanzare il governo attuale, in modo molto deciso, verso un processo di dialogo con la ribellione.

Barcellona e Medellín, città sorelle.

Si, esiste un accordo chiamato “gemellaggio tra città”, stabilito già da molti anni. Ci sono molti temi di politica sociale che sono stati costruiti in modo bilaterale, temi in comune, culturali, antropologici. Abbiamo una certa affinità nel nostro modo di pensare e di vedere, compresa la relazione con la centralità del governo, e, ripeto, grazie a decisioni dei governi precedenti si è determinato un processo di gemellaggio, che ci aiuta perché ci capiamo su molte cose, abbiamo progetti in comune e questo ha permesso azioni congiunte in merito a processi e a propositi comuni.

Molte grazie per questa intervista e per l’altezza politica e morale che difendete. Voi siete davvero il Nuovo Mondo.

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Durante l’intervista a Barcellona sull’Accordo di Pace in Colombia. Da sinistra a destra: Lorena Medina (Pressenza), Mauricio Herrera, José Arley, Antonia Utrera (Pressenza). Foto: Pedro Muñoz