Un golpe fallito o un golpe fasullo? Un dibattito importante che in questi giorni appassiona molti, ma che in ultima analisi rischia di farci perdere di vista il punto centrale. Cioè, che il vero colpo di Stato, quello che difficilmente fallirà, almeno nel breve periodo, e che è terribilmente concreto, è iniziato ora e ha il volto civile di Erdogan e il sostegno di un ampio settore della società turca.

Erdogan è ormai al potere da 13 anni, dal 2003 al 2014 come Primo Ministro e poi come Presidente della Repubblica, e in realtà non ha mai fatto mistero del suo vero obiettivo politico, che lui chiama “repubblica presidenziale”, ma che sarebbe più corretto chiamare dittatura. È sopravvissuto a tutte le avversità e ha tolto di mezzo con la forza ogni opposizione, dal movimento di Gezi Park alla stampa non imbavagliata, passando per quei magistrati che volevano indagare sulla corruzione nel suo entourage o sul traffico d’armi con l’Isis. È sopravvissuto persino al suo fallimento più grande, cioè il naufragio politico del progetto neo ottomano che intendeva fare della Turchia la potenza egemone del mondo musulmano sunnita. E quando le urne non gli consegnarono democraticamente il risultato che lui voleva, come accadde in quel 7 giugno dell’anno scorso, allora semplicemente indisse nuove elezioni politiche, poi vinte dal suo partito, ma non senza aver prima scatenato a freddo la guerra contro il movimento e la popolazione curda e dato il via libera alla strategia della tensione.

Ora Erdogan è scampato anche al tentato golpe di una parte dell’esercito, che probabilmente non era fasullo, ma sicuramente velleitario e maldestro, tant’è vero che era assolutamente privo di sostegno popolare e che tutte le forze politiche dell’opposizione, compreso il partito di sinistra e curdo Hdp, l’avevano condannato. E lui non ci ha pensato due volte e ha colto la palla al balzo, dando un’accelerata tremenda al suo progetto autoritario, che appunto non prevede né opposizioni politiche, né indipendenza degli organi statali. Nel nome della caccia ai golpisti, che in realtà non sembravano poi così numerosi, è in atto un’epurazione di massa in tutti gli apparati statali, compresa la magistratura, che sta coinvolgendo molte migliaia di persone tra militari, magistrati, prefetti e poliziotti. Evito di dare dei numeri, perché li trovate facilmente on line e, soprattutto, vanno aggiornati di ora in ora, ma è evidente che la stretta repressiva è pesante e colpisce chiunque negli apparati statali non sia fedele al comando di Erdogan e del suo partito, l’Akp.

Per ora il colpo di Stato civile di Erdogan, le cui origini risalgono alla non accettazione del risultato elettorale del 7 giugno 2015, si concentra sugli apparati statali, ma bisogna capire cosa succederà domani agli oppositori politici, alle forze democratiche e ai movimenti curdi, già duramente provati dalla progressiva chiusura degli spazi politici e dalla sanguinosa repressione. Forse Erdogan opterà per una tregua temporanea, perché la storia insegna che combattere su tutti i fronti contemporaneamente è una pessima idea, ma per il resto non bisogna farsi illusioni di alcun tipo. E la grande prudenza delle dichiarazioni d Demirtas, leader dell’Hdp, sta lì a ricordarcelo.

In questi giorni, leggendo i commenti sui social, si coglie un clima di pessimismo cosmico da parte delle persone e dei compagni che in questi anni hanno guardato con simpatia –o anche con molto di più- ai movimenti di Gezi Park prima e alla resistenza curda poi. C’era stato persino chi quella notte aveva tifato per i militari golpisti, dimenticandosi in un sol colpo della storia e del ruolo nello Stato dei militari turchi. Per carità, tutto comprensibile, perché è evidente che oggi in Turchia i movimenti sociali e democratici e la resistenza curda sono troppo deboli e non riescono ad esprimere la forza sufficiente per conquistare un progetto di cambiamento. Ma detto questo, ora dobbiamo anche recuperare un po’ di lucidità, perché comunque in Turchia le cose non saranno normalizzate e, comunque, non c’è alternativa a quei soggetti se l’obiettivo è il cambiamento vero e non un simulacro. Ma questo, forse, è un problema più generale e non solo turco.