Il 17 febbraio scorso, il Kosovo (almeno la sua larga maggioranza albanese kosovara) ha celebrato i suoi primi otto anni della auto-proclamata indipendenza: una indipendenza che lo ha reso uno Stato de facto, nel contesto di una comunità internazionale che ancora non lo riconosce e all’interno della quale ancora si studiano e si avanzano proposte e progetti per una soluzione della crisi kosovara.

 

Di lì a poco più di una settimana, lo scorso 26 febbraio, il Kosovo ha anche un nuovo presidente della (auto-proclamata) repubblica: si tratta, non a caso, di Hashim Thaçi, che, al terzo scrutinio è stato eletto da 81 deputati (presenti e votanti) con 71 voti a proprio favore. Può essere significativo il fatto che i restanti 10 voti siano risultati nulli, o comunque non validi, mentre l’altro candidato alla presidenza, Rafet Rama, deputato del PDK, vale a dire appartenente allo stesso partito politico di Thaçi e del quale Thaçi stesso è leader indiscusso, non ha ricevuto alcun voto, nemmeno il proprio.

 

Tuttavia, a dispetto del risultato del voto e delle stesse modalità elettorali, si tratta di una elezione non di poco conto: intanto perché rappresenta un “cambio di marcia” significativo negli equilibri rappresentati alla presidenza, con il passaggio da una figura scialba e sbiadita, tuttavia gradita alla comunità internazionale e soprattutto agli Stati Uniti – vero e proprio dominus della scena politica kosovara – come quella della ex presidentessa Atifete Jahjaga; e poi perché costituisce un vero e proprio “coronamento” della carriera politica di Hashim Thaçi, vero e proprio “uomo forte” del Kosovo di oggi, con un passato di leader della guerriglia separatista albanese kosovara dell’UCK.

 

È vero che l’elezione di Thaçi poteva sembrare più che scontata: il Kosovo è oggi governato da una specie di “grande coalizione” tra i due partiti eredi delle due ali politiche maggiori della guerriglia separatista degli anni Novanta, il PDK (il partito di Thaçi stesso, il Partito Democratico del Kosovo) e l’LDK (il partito che fu di Rugova, la Lega Democratica del Kosovo); la presidenza del governo è attualmente espressa dall’LDK, con la figura del premier Isa Mustafa; il patto non scritto prevedeva, in tale sorta di staffetta istituzionale, che Thaçi fosse appunto candidato “naturale” alla presidenza.

 

Al punto che non è sfuggito ad alcuni osservatori ed analisti, non solo il fatto che l’LDK non abbia inteso candidare nessuno alla presidenza, ma che anche l’altro candidato, espressione dello stesso PDK come detto, non abbia avuto nemmeno un voto, nemmeno il proprio, e sia stato quindi, di fatto, più un candidato “formale” che un competitor reale, in modo da rendere legittima l’elezione.

 

In Kosovo, però, nulla è mai scontato come potrebbe sembrare: le opposizioni ultra-nazionaliste (in particolare i due movimenti politici della AAK, l’Alleanza per il Futuro del Kosovo, di Ramush Haradinaj, e Vetevendosje, Autodeterminazione, di Albin Kurti) continuano a boicottare le votazioni e i lavori parlamentari; l’elezione di Thaçi alla presidenza si è svolta in un clima da “guerra civile”, con scontri violenti nelle strade di Pristina; il diffuso malumore, sia di carattere politico, sia a livello sociale, rischia di tracimare in violenza diffusa e mette in bilico le chance di sviluppo e convivenza.

 

L’accordo di normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina (siglato il 19 Aprile 2013 e aggiornato il 25 Agosto 2015) impone difficili rinunce e delicate mediazioni ad ambo le parti: da parte kosovara, viene riconosciuta (sebbene sia sistematicamente ostacolata) la costituzione della cosiddetta “Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo”, dotata di una autonomia speciale, nel quadro costituzionale kosovaro, specie nei campi dell’economia locale, sviluppo e infrastrutture, scuola e sanità; da parte serba, viene riconosciuto lo status quo, che non impone (a meno di forzature da Bruxelles o Washington) il riconoscimento del Kosovo, ma non ne può impedire l’adesione ai consessi internazionali. Peraltro resta, in punta di diritto, in vigore la nota risoluzione 1244 del 1999.

 

La sfida è l’incertezza, dal momento che si tratta, per tanti motivi, di una regione in bilico, sia in termini sociali, sia in termini istituzionali: i cittadini kosovari soffrono per le condizioni materiali di esistenza, subiscono una disoccupazione galoppante e una povertà diffusa, e patiscono i termini di una serie di limitazioni istituzionali. Lo dimostra il fatto che, ad esempio, i cittadini kosovari siano praticamente gli unici in Europa che ancora devono richiedere un visto per recarsi in area Schengen.