La Siria è crollata. Generalmente, si pensa che la causa sia solo politica o religiosa. Falso, osserva l’autore che, sottolineando che non bisogna dimenticare il clima, propone in questa rubrica un punto di vista nuovo sulla crisi attuale. ”L’afflusso dei rifugiati non è dunque una ‘crisi’, è l’inizio di un grande movimento planetario e più specificamente di un tracollo globale”.

Pablo Servigne è l’autore, insieme a Raphaël Stevens, di Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes, Seuil, 2015.


Quando oggi si osserva un’immagine satellitare notturna della Siria, si nota che l’intensità della luce è diminuita dell’83% se confrontata con la stessa foto presa nel 2011. [1] Il paese è letteralmente collassato. Nell’immaginario della maggioranza della gente, la causa è di natura politica: è colpa del regime autoritario di Bashar al-Assad.

Tuttavia, dal 2007 al 2010, e cioè nei quattro anni che hanno preceduto la primavera siriana del 2011, la Siria è stata colpita dalla peggiore siccità mai registrata nella regione, provocando una catastrofe agricola di grandi proporzioni e costringendo un milione e mezzo di persone alla migrazione verso le città.

Uno studio pubblicato il 17 marzo 2015 ne Comptes-Rendus de l’Académie des Sciences des Etats-Unis (Atti dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti) va persino oltre, giungendo ad affermare che questa tendenza a lunghe e intense siccità nel bacino del Mediterraneo si va confermando, e la causa risiede nelle attività umane. In altre parole, “l’influenza delle attività umane sul cambiamento climatico svolge un ruolo nell’attuale crisi siriana”. [2]

Il clima come scintilla

In effetti, la causa climatica non è assolutamente da trascurare nelle analisi geopolitiche. [3]. Nel 1693-1694, ad esempio, una carestia ha provocato un milione e mezzo di decessi in Francia, lo stesso numero di vittime della guerra 14-18, solo che il paese contava appena 20 milioni di abitanti! Nel 1789, nel 1830 e nel 1848, il clima ha fatto da elemento scatenante nelle rivoluzioni, per secoli ha causato guerre e carestie o fermato eserciti.

Più in generale, sappiamo oggi che nell’Europa pre-industriale (tra il 1500 e il 1800) le gravi crisi economiche e demografiche sono state tutte strettamente correlate a perturbazioni climatiche. Secondo le conclusioni di uno studio pubblicato nel 2011 [4], le tre principali cause di forte tasso di mortalità (guerre, malattie e carestia) sono dovute tutte a crisi economiche…causate da crisi alimentari… causate da avversità climatiche! Una catena di causalità la cui l’origine è sempre la “scintilla clima”.

Profughi curdi in fuga dall’Iraq nel 1991.  Wikipedia (PHAN April Hatton/dominio pubblico)

Ma, si obietterà , e a ragione, non c’è solo il clima! In Iran, per esempio, ci sono state delle terribili siccità negli ultimi anni [5], eppure non ci sono state guerre. Effettivamente, il clima non è l’unica causa di tutti i disordini geopolitici. Il declino della produzione petrolifera, il prezzo degli alimenti o la mancanza di risorse, ad esempio, sono stati spesso citati come cause dello scoppio della primavera Araba [6].

Allo stesso modo, in Siria la terribile siccità è venuta ad aggiungersi a una governance disastrosa, a misere politiche ambientali e a un sistema agricolo molto vulnerabile. In più, non bisogna dimenticare l’arrivo di un milione di rifugiati iracheni in fuga da conflitti armati, ed ecco pronto un magnifico vivaio per un’insurrezione o una rivoluzione…

La cecità delle élite come costante

Se il clima è la scintilla, da dove arriva la bombola? Su un periodo più prolungato di tempo, ed esaminando altre parti del globo (in clima tropicale, per esempio), il biologo e archeologo Jared Diamond [7] ha individuato cinque fattori di collasso, ricorrenti e spesso sinergici, nelle società da lui studiate: 1. il degrado ambientale o l’esaurimento delle risorse, 2. il cambiamento climatico, 3. le guerre, 4. la perdita improvvisa dei partner commerciali e 5. le reazioni (errate) della società ai problemi ambientali.

Per lui, l’unico fattore comune a tutti i collassi è il quinto, quello d’ordine sociopolitico: le disfunzioni istituzionali, la cecità ideologica, i livelli di disuguaglianza e soprattutto l’incapacità della società, e in particolare delle classi dirigenti, di reagire adeguatamente a eventi potenzialmente catastrofici.

In realtà, questo famoso quinto fattore accentua la vulnerabilità di una società (la sua mancanza di resilienza) al punto da renderla molto sensibile a quelle crisi che normalmente sarebbe in grado di affrontare senza problemi. In altre parole, quello che viene chiamato un disastro ‘naturale’ non è mai davvero estraneo all’azione umana… [8]

Analogamente, l’archeologo e geografo Karl W. Butzer ha recentemente proposto una nuova classificazione per il collasso delle civiltà, facendo una distinzione tra precondizioni (ciò che rende la società vulnerabile) e fattori scatenanti o detonatori (le crisi che possono destabilizzarla). [9] Le precondizioni sono spesso endogene (incompetenza o corruzione delle classi dirigenti, diminuzione della produttività agricola, povertà…) ma può anche essere di origine esogena (diminuzione delle risorse naturali…). Queste riducono la resilienza della società e sono fattori di declino. I fattori scatenanti sono più rapidi e spesso esogeni (eventi climatici estremi, invasioni, esaurimento delle risorse…) ma possono anche essere endogene (crisi economiche…). Tali fattori scatenanti causano il collasso se sono preceduti da precondizioni “favorevoli”.

Non è questione di affibbiare sistematicamente la colpa a cause cosiddette “naturali”. Il clima è in realtà una faccenda politica, nelle sue cause come nelle sue conseguenze.

Siamo tutti siriani

Siamo entrati in un’epoca di instabilità climatica. Negli ultimi decenni gli eventi estremi hanno causato perdite significative. [10] Nel 2003, ad esempio, l’ondata di caldo ha causato la morte di 70.000 persone in Europa [11] e costato 13 miliardi di euro al settore agricolo europeo. [12] Nel 2010, gli episodi di siccità in Russia hanno ridotto del 25% la produzione agricola e fatto perdere all’economia 15 miliardi di dollari (l’1% del PIL), costringendo il governo a rinunciare alle esportazioni per quell’anno. [13]

D’altra parte, non c’è dubbio che i conflitti e gli spostamenti in massa delle popolazioni causati dal riscaldamento globale diventeranno più frequenti e più intensi. [14] Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change), il cambiamento climatico “aumenterà il rischio di conflitti violenti, che assumeranno la forma di guerre civili e di violenza inter-gruppo”. [15] Nel 2013, uno studio pubblicato sulla rivista Science quantificava questa tendenza mostrando, attraverso dati storici risalenti ad oltre 10.000 anni su 45 conflitti in tutto il mondo, che un aumento della temperatura media e un cambiamento nel regime delle precipitazioni erano sistematicamente correlati con un aumento di atti di violenza interpersonale e di conflitti armati. [16]

Ma riusciremo a rendercene conto? Secondo Harald Welzer, psicologo sociale e specialista dei legami tra l’evoluzione delle società e la violenza, gli esseri umani, attraverso la creazione di finzioni identitarie, trovano sempre una giustificazione per uccidersi a vicenda. Anche se le cause primarie sono le risorse, le migrazioni, le carestie, le malattie o il clima, i conflitti armati possono agevolmente prendere l’aspetto di conflitti religiosi o guerre ideologiche.

Welzer dimostra come una società possa lentamente e impercettibilmente modificare i limiti della tollerabilità al punto da mettere in discussione i propri valori pacifici e umanisti e sprofondare in quello che considerava, fino a pochi anni prima, inaccettabile.

La gente si abituerà (e già si sta abituando) agli eventi climatici estremi, agli episodi di penuria o agli spostamenti di popolazioni. Gli abitanti dei paesi ricchi probabilmente finiranno per abituarsi anche a politiche sempre più aggressive nei confronti dei rifugiati o verso altri Stati, ma soprattutto saranno sempre meno consapevoli di quel senso di ingiustizia avvertito dalle popolazioni colpite dai disastri. Sarà proprio questa discrepanza a diventare terreno fertile per i conflitti futuri.

Tutto questo durerà a lungo. Per riprendere le parole di Matthieu Ricard, “immaginate cosa sarà quando avremo 200 milioni di rifugiati climatici” [17]… L’afflusso di rifugiati non è quindi una crisi, ma piuttosto l’inizio di un grande movimento planetario e più specificamente di un collasso globale. [18]

È probabile che anche noi saremo un giorno dei rifugiati.


[1] I. Black, «  Satellites capture how the lights have gone out in Syria  », The Guardian, 12 marzo 2015.

[2] C. P. Kelley et al. (2015). «  Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought  ». Proceedings of the National Academy of Sciences, 112(11), 3241-3246.

[3] A. Sinaï, «  Aux origines climatiques des conflits  ». Le Monde Diplomatique, agosoto 2015.

[4] D.D. Zhang et al., «  The causality analysis of climate change and large-scale human crisis  », Proceedings of the National Academy of Sciences, 2011. Vol. 108, n. 42, pp. 17296-17301

[5] Non è solo l’Iran. Altri nove paesi sono a rischio di gravissime conseguenze a causa della mancanza di acqua: Bahrein, Kuwait, Palestina, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Israele, Arabia Saudita, Oman, Libano.

[6] R. Barroux. «  La pression sur les ressources, facteur de crises en Méditerranée  ». Le Monde, 3 ottobre 2012.

[7] J. Diamond. Effondrement. Gallimard, 2006.

[8] V. Duvat & A. Magnan, Des catastrophes… «naturelles»  ? Éditions Le pommier, 2014.

[9] K. W. Butzer. «Collapse, environment, and society». Proceedings of the National Academy of Sciences. 2012. Vol. 109, n. 10, pp. 36323639

[10] D. Coumou et S. Rahmstorf, «A decade of weather extremes», Nature Climate Change, 2012. n°2, pp. 491-496.

[11] J.M. Robine et al., «  Death toll exceeded 70,000 in Europe during the summer of 2003  », Comptes rendus biologies, 2008. Vol. 331, n. 2, pp. 171-178.

[12] P. Ciais et al., «  Europe-wide reduction in primary productivity caused by the heat and drought in 2003  », Nature, 2005. Vol. 437, n. 7058, pp. 529-533.

[13] D. Barriopedro et al., «  The hot summer of 2010 : redrawing the temperature record map of Europe  », Science, 2005. Vol. 332, n. 6026, pp. 220-224.

[14] H. Welzer. Les guerres du climat. Pourquoi on tue au XXIe siècle. Gallimard, 2009.

[15] IPCC, 2014 : Summary for Policymakers. In: Climate Change 2014 : Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part A : Global and Sectoral Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change. Cambridge University Press, Cambridge, United Kingdom and New York, NY, USA, pp. 1-32.

[16] Hsiang, S. M. et al. (2013). «Quantifying the influence of climate on human conflict». Science, 341(6151), 1235367. Ovviamente, il clima non sarà l’unica causa di futuri conflitti, e questa semplice correlazione non deve nascondere il fatto che in questo genere di dinamiche è al lavoro anche la complessità socio-politica e culturale delle relazioni tra le società e gli individui. Vedere J. O’Loughlin et al. «  Modeling and data choices sway conclusions about climate-conflict links». Proceedings of the National Academy of Sciences, 2014, 111, 2054-2055(11), 3241-3246.

[17] http://www.rts.ch/info/monde/7057143-matthieu-ricard-et-les-refugies-je-n-avais-autant-pleure-depuis-longtemps.html?rts_source=rss_t

[18] P. Servigne & R. Stevens. Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes. Seuil, 2015.


Leggere anche: «Tout va s’effondrer. Alors… préparons la suite»


Fonte: Mail a Reporterre

In queste rubriche, gli autori esprimono un punto di vista che non riflette necessariamente quello della redazione..

Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza