di Marinella Correggia

Il 19 aprile 2015, a piazza San Pietro, cittadini yemeniti, di altri paesi arabi e italiani, in rappresentanza della Comunità yemenita, di Rete No War e di Assadaka hanno partecipato all’Angelus del Pontefice portando la bandiera nazionale a strisce rosso-nere-bianche e la scritta “Stop alle bombe saudite in Yemen” su un cartello improvvisato. Gli attivisti avrebbero esibire un grande striscione per ottenere qualche parola dal papa, e visibilità presso i media per un’aggressione – quella saudita – che non suscita lo sdegno mondiale come dovrebbe. Ma i materiali per il muto appello al papa e al mondo sono stati requisiti dalla polizia italiana prima dell’ingresso in piazza.

Fadhl, medico yemenita, intervistato da alcuni media, ha rivolto “un appello al mondo, affinché fermi l’aggressione al nostro paese che ha già provocato moltissime vittime civili e distrutto infrastrutture nell’assoluta illegalità dal punto di vista internazionale e del diritto umanitario. L’Arabia saudita e le altre petromonarchie uccidono in Yemen per i loro interessi geostrategici sull’importante spazio di mare, e in funzione anti-iraniana. Ma così facendo, oltre a danneggiare il popolo yemenita, favoriscono la crescita di terroristi come al Qaeda e Daesh”. La piccola Haura, 10 anni, ha ricordato “i miei parenti che a Sana’a devono cercare di proteggersi dalle bombe che cadono. Non capisco perché nessuno si interessi a questa guerra. I bambini devono vivere!”.

Nelle stesse ore, la terribile notizia della morte nel Mediterraneo di centinaia di migranti – richiamata ovviamente allo stesso papa Francesco – ha oscurato anche sulla piazza la possibilità che l’appello degli yemeniti ottenesse qualche attenzione mediatica. Eppure, come ha ricordato una esponente della Rete No War in una dichiarazione alla stampa, “fra i morti sotto le bombe delle petromonarchie in Yemen e il più grande naufragio di migranti in fuga dai loro paesi c’è un nesso: i responsabili, i carnefici. Che sono gli stessi: i paesi della Nato e le petro-monarchie, due assi della guerra. Insieme nel 2011 hanno bombardato la Libia sostenendo gruppi armati locali rivelatisi estremisti, razzisti e in grado di partire a uccidere sia in Africa che in Siria e Iraq.

La ex Libia dava lavoro a due milioni di persone, che lo sfascio nel paese nordafricano ha costretto a tornare a casa, per poi cercare di ripartire per l’Europa mettendosi, sempre in Libia, nelle mani degli scafisti. La guerra alla Libia ha dato manforte alla crescita di gruppi terroristi sedicenti islamici, in una manovra a tenaglia completata dall’azione condotta in Siria sempre dai paesi della Nato e del Consiglio di cooperazione del Golfo, con il loro sostegno a gruppi di opposizione armata poi confluiti armi e bagagli in Al Nusra o Daesh (Isis). Con la totale rovina di quel paese e del vicino Iraq”.