Ieri è stato diffuso il rapporto sulla tortura del Comitato Intelligence  del Senato. Ha causato grande impatto, facendo rivivere il dibattito a livello mondiale sull’uso della tortura negli Stati Uniti subito dopo l’11 settembre. Alcuni hanno elogiato il rapporto, comprese le organizzazioni come l’Osservatorio per i Diritti Umani, e il Centro per i Diritti Costituzionali che hanno fatto pressione per avere una completa spiegazione sull’uso dei metodi proibiti dagli Stati Uniti e anche dalla legge internazionale e anche sulla responsabilità di coloro che hanno fatto di tali metodi una politica ufficiale di stato, anche se ne notano i suoi significativi limiti (compresi il non riuscire a diffondere il rapporto completo, il ritardo di 4 anni nel rilasciare il sunto del rapporto, e l’edizione delle informazioni chiave, come i dettagli che avrebbero contribuito a stabilire una chiara catena di comando). Coloro che hanno appoggiato questa linea politica – compresi alcuni di coloro che la hanno avviata, come l’ex Vice presidente Dick Cheney – hanno condannato il rapporto, accusando i suoi autori di parzialità e asserendo di nuovo che la tortura ha contribuito a mantenere gli Stati Uniti al sicuro da ulteriori attacchi terroristici (un’affermazione mai dimostrata). Non negano però che la tortura era stata usata.

In quanto docente universitaria e attivista di lunga data per i diritti umani, do il benvenuto alla diffusione del rapporto del Senato. E’ importante la caparbia indagine sui fatti e la ricerca della verità subito dopo un’atrocità. Un rapporto di questa natura può aiutare a fare chiarezza su che cosa è successo, se tali atrocità sono state opera di “poche mele marce” o di una sistematica politica di stato. Questo è importante anche quando era noto da lungo tempo prima della diffusione del rapporto che l’uso della tortura negli Stati Uniti era in effetti la politica ufficiale dello stato durante gli anni di Bush.  Un rapporto come questo può generare un dibattito nazionale circa i metodi controversi, aiutare i cittadini a valutare e rivalutare la loro opinione si tali metodi, e determinare se dovrebbero essere seguiti da altra azioni- comprese, potenzialmente, le azioni penali.

Molti dei miei connazionali statunitensi ripudiano con veemenza l’uso della tortura, in patria o all’estero. Nel corso degli anni ho lavorato con centinaia di docenti universitari,   e attivisti negli Stati Uniti , che hanno dedicato la loro vita a porre fine alla tortura e ad altre violazioni dei diritti umani in America Latina e in tutto il mondo. Altri  credono che il discorso ufficiale ripetuto fino alla nausea negli anni di Bush, cioè che la tortura – che viene eufemisticamente definita “tecniche potenziate di interrogatorio” – era sia necessaria che efficace per ottenere informazioni fondamentali per evitare attacchi futuri. Mentre scrivo questo pezzo sto ascoltando un inviato della NPR (National Public Radio) che intervista un ex funzionario della CIA dell’epoca di Bush, il quale ripete queste affermazioni. Quando l’inviato insiste perché fornisca esempi concreti, il funzionario cita soltanto opinioni di funzionari del governo, obiettando che forse tali informazioni si sarebbero potute ottenere usando altri metodi, ma farlo, avrebbe richiesto un tempo maggiore. Queste affermazioni così ipocrite non dovrebbero ingannare nessuno, a questo punto, e tuttavia so che molti continuano ad avere questa convinzione. La mia speranza è che leggano questo rapporto e che siano disgustati dalle sue rivelazioni: che gli Stati Uniti d’America che pretendono di essere un faro di libertà e di indipendenza, difensori e sostenitori dei diritti umani, hanno autorizzato l’uso della tortura – e che questa non è soltanto una aberrazione giuridica, ma anche morale. La mia speranza è che questo li porterà a riconsiderare le loro opinioni, e a ripudiare per sempre la tortura e il suo uso, nel nostro paese e in tutto il mondo.

E questo mi porta al secondo punto circa il rapporto del Senato. Le sue rivelazioni sono importanti di per sé, ma sottolineano anche il fatto che il governo statunitense era impegnato in un comportamento palesemente illegale, sia in base allo standard della sua stessa legge, che in base a quello della legge internazionale. The Convention against Torture [La convenzione contro la tortura], che gli Stati Uniti hanno firmato e ratificato – e in quanto tale è vincolata dalle sue disposizioni –stabilisce non soltanto l’illegalità della tortura, ma anche l’obbligo degli stati di indagare, perseguire penalmente e punire coloro che sono responsabili di avere eseguito delle torture. Gli Stati Uniti sono in una situazione di lampante violazione dei loro obblighi internazionali dato che non riescono ad andare avanti su una strada credibile di azione penale di coloro maggiormente responsabili del programma di tortura. In quanto tale, essa  indebolisce la loro reputazione nell’arena internazionale, e cancella la sua credibilità di difensore e sostenitore dei diritti umani in tutto il mondo.

La mia personale ricerca è incentrata sull’America Latina, un continente che, quando ho iniziato la prima volta a lavorare là, era assediata da brutali dittature militari e da guerre civili fratricide. Molti dei paesi emergenti dall’oscura notte dell’autoritarismo e  del conflitto civile, sono ricorse  a una pratica relativamente nuova: la creazione di commissioni ufficiali di inchiesta, chiamate commissioni per la verità, che si a indagare completamente sugli abusi del passato, riconoscere gli orrori sopportati dalle vittime, e fare raccomandazioni di fornire risarcimenti alle vittime e assicurare che tali abusi non avvengano di nuovo. Lo slogan “Nunca mas!” – “Mai più!” – è diventato parola d’ordine di una generazione che riemergeva dalle celle segrete della dittatura una delle pietre miliari del moderno movimento per i diritti umani.

Diverse nazioni latino americane, comprese Argentina, Cile, El Salvador, Guatemala e Perù, hanno creato commissioni per la verità per indagare sulle violazioni delle passate dittature. Nella prima esperienza delle commissioni per la verità, soltanto l’Argentina ha cercato di collegare la ricerca della verità con i procedimenti penali nei confronti di coloro maggiormente responsabili per la progettazione e l’attuazione di una politica sistematica di sparizioni forzate. Vari ex generali sono stati in realtà perseguiti e imprigionati come autori teorici di questi crimini, ma il malcontento dei militari ha portato il nuovo governo democratico a imporre delle leggi di amnistia per limitare ulteriori procedimenti legali. In seguito, è stata imposta un’amnistia totale che ha messo completamente fine a tali procedimenti e i pochi perseguiti sono stati liberati, installando quindi un’impunità istituzionalizzata. Altrove,  fragili transizioni in cui l’esercito rimaneva potente e apparentemente minacciava le nuove democrazie, hanno portati i leader a evitare del tutto le azioni legali, incentrandosi per prima cosa sulla ricerca della verità, e in alcuni casi sui risarcimenti per le vittime. In Cile, per esempio, il Presidente Patricio Aylwin, dando retta  all’avvertimento del dittatore uscente, Generale Augusto Pinochet che “neanche un capello sulle teste dei miei uomini verrà toccato,”  obiettava a favore di una politica  di “giustizia per quanto possibile.” Questo significava che i torturatori hanno continuato a godere della loro libertà, mentre le vittime venivano private del loro diritto alla giustizia per i torti commessi contro di loro – tortura, sparizioni forzate, esecuzione extragiudiziale, violenza sessuale.

Oggi, però, anni dopo, i paesi dell’America Latina hanno superato questa situazione di impunità riguardo alle violazioni dei diritti umani. Le leggi per l’amnistia sono state ribaltate o ignorate, e i processi penali sono andati avanti in vari paesi, compresi: Argentina, Cile, Uruguay, Peru e Guatemala. Questo non è stato un processo lineare e incontestato – in effetti in molte occasioni ci sono stati degli ostacoli, come nel rapido ribaltamento del verdetto di genocidio contro l’ex dittatore del Guatemala Efrain Rios Montt – ma il fatto reale è che l’America Latina sta facendo guida nel dimostrare che è possibile indagare e perseguire penalmente alcuni delle peggiori violazioni commesse durante i governi precedenti. Alcuni dei dittatori più brutali della regione sono stati processati messi in prigione: Videla, Fujimori, Bordaberry, per citarne alcuni – e la democrazia in quei paesi è più forte per questo. Oggi la Commissione Nazionale Brasiliana della Verità – 50 anni dopo che i militari hanno realizzato un colpo di stato e hanno istituito una delle dittature più durature nella storia moderna dell’America Latina, e 29 anni dopo la transizione alla democrazia nel 1985 – sta diffondendo il suo rapporto che delinea gli abusi commessi durante la sua dittatura, e chiedendo un procedimento penale per i funzionari militari ancora vivi, responsabili di queste orrende violenze.

Mi rifiuto di credere che non sia possibile che gli Stati Uniti facciano lo stesso. Siamo una nazione ricca, potente con una robusta tradizione democratica. Se non perseguiamo legalmente i responsabili della tortura, corriamo il rischio non soltanto di che queste pratiche brutali vengano usate di nuovo, ma anche quello di distruggere proprio la democrazia che sosteniamo di avere così a cuore. La tortura è un affronto alla dignità umana. Non può essere giustificata, mai! E quando viene praticata in nostro nome, è nostra responsabilità agire: opporsi, dire: “Mai più!”, e insistere che i responsabili vengano ritenuti responsabili.

Di Jo-Marie Burt, traduzione di Maria Chiara Starace per Z-Net Italy

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