Non festa ma lutto. Ma se il ricordo della fine della “grande guerra” deve proprio essere celebrato, almeno sia la “Festa del Disarmo”…

4 novembre, anche quest’anno nelle piazze d’Italia torneranno i picchetti militari e gli alzabandiera per la Festa delle Forze Armate. L’anniversario della fine della prima guerra mondiale, è l’unica “festa nazionale” che abbia attraversato le età dell’Italia liberale, fascista e repubblicana, come se niente fosse accaduto nel “secolo breve”.
Allora ricordiamola questa “grande guerra”, che fu chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala messa in campo dagli eserciti. Quei 4 anni di guerra provocarono la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Il sistema economico indirizzò tutte le sue risorse a sostenere l’impegno di guerra. Le nuove fabbriche fordiste – chimiche, meccaniche, aeronautiche e navali – furono rapidamente piegate al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. Con 60 milioni di combattenti e 16 milioni di morti, di cui 7 milioni civili, la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale. Questa guerra segna uno spartiacque che divide la storia e la memoria moderna in un prima e un dopo.
E’ un salto di qualità distruttiva acquisita definitivamente dagli eserciti, che da allora in poi sarebbe stato sempre più perfezionata, in un’escalation senza fine di armamenti, guerre, vittime civili, distruzione delle città e nuovi, più potenti armamenti. Fino ai campi di sterminio, ad Hiroshima e Nagasaki, e poi all’equilibrio del terrore, al napalm, all’uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai cacciabombardieri nucleari F-35, ai droni telecomandati…
Come si può dunque continuare a festeggiare – dopo un secolo di tragedie belliche – proprio quelle forze che preparano e rendono ancora possibile le guerre? Com’è possibile festeggiare coloro che armandosi (quindi sottraendo risorse per altre necessità) ci disarmano di fronte alle vere e concrete minacce che assediano la nostra vita civile: la povertà (raddoppiata negli ultimi 5 anni), la disoccupazione (oltre il 40 % dei giovani italiani), la precarietà sociale, le mafie, le devastazioni ambientali, l’analfabetismo dilagante. Se le feste civili servono a formare la coscienza dei cittadini, il 4 novembre è proprio una cattiva maestra. Ed è ancora più vergognoso che in molte parti d’Italia le scuole siano state sollecitate a far partecipare i bambini alle parate militari o a visitare le caserme.
Tuttavia, se il ricordo della fine della “grande guerra” deve proprio essere una festa, invece che un giorno di lutto nazionale, almeno sia la “Festa del Disarmo” come monito permanente contro tutte le guerre. Un Giornata nella quale si ricordino – e si onorino – le renitenze e le diserzioni dei molti giovani che si rifiutarono di andare a morire ed uccidere nelle trincee d’Europa, gli ammutinamenti e le insubordinazioni di massa dei soldati stanchi di essere mandati al macello dai propri superiori. Tutte azioni di disarmo personale, di disubbidienza diffusa e obiezione popolare alla logica di quella  guerra che Benedetto XV definì “l’inutile strage”, ed il cui sacrificio – insieme al sacrificio delle vittime di tutte le guerre – ci obbliga a cercare finalmente, dopo un secolo di massacri, un’altra strada che lasci definitivamente la guerra fuori dalla storia. La strada del disarmo, della riconversione dell’industria bellica e della costruzione di un altro paradigma di difesa: civile, non armata e nonviolenta. Così il 4 novembre può diventare davvero festa, la Festa del Disarmo. Sarebbe il modo più saggio per iniziare, l’anno prossimo, celebrazioni non retoriche, ma di buon senso, per il centenario della “grande guerra”.