La recente evocazione del “modello Kosovo” da parte degli Stati Uniti come “modello” per una sempre più incombente campagna di guerra contro la Siria non intende concretizzare semplicemente una “opzione militare” (come la gran parte degli analisti tende a ritenere) bensì vuole rappresentare un vero e proprio “disegno strategico”: quello di una aggressione militare, fondata sugli interessi nazionali e la propensione imperialistica del sistema statunitense e mirata ad un “cambio di regime” in Siria, nell’ottica di un nuovo “Medio Oriente” da plasmare ad uso e consumo degli interessi e della presenza strategica degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’area. Ritenere il “modello Kosovo” semplicemente alla stregua di una opzione militare tra le tante a disposizione degli Stati Uniti significa infatti negare alla guerra del Kosovo quel carattere, al tempo stesso paradigmatico e costituente, da essa assunto anche nei piani del Dipartimento di Stato e della NATO.

La complessità della guerra del Kosovo, con il suo lungo dopo-guerra, può essere riassunta in almeno tre fattori:

a) il carattere “costituente” della campagna militare dell’Alleanza Atlantica per il ridisegno dello scenario regionale, l’assestamento della competizione strategica con Russia e Cina e l’insediamento di un vero e proprio protettorato strategico (di ordine politico e militare come dimostra l’installazione della base di Camp Bondsteel) nel cuore dell’Europa e della UE, a crocevia di ragioni geopolitiche e di interessi economici,

b) la mortificazione del ruolo dell’ONU, tenuta ai margini del processo decisionale di legittimazione internazionale dell’iniziativa militare, chiamata di conseguenza ad intervenire solo ex-post, con una sorta di legittimazione spuria ed un rinnovato impegno nella ricostruzione civile di ordine non militare (UNMIK),

c) la conferma del carattere etno-politico delle cosiddette nuove guerre (M. Kaldor) con tutto ciò che questo significa in termini di strumentalizzazione politica della questione etnica e religiosa, frammentazione delle composizioni multi-nazionali e multi-confessionali, successo dell’aberrante principio di “Stato della Nazione”.

Raffrontare questi fattori con gli elementi presenti sulla odierna scena siriana può fornire qualche utile indicazione per orientarsi nel ginepraio medio-orientale, sullo sfondo della competizione strategica con la Russia, l’Iran, e, soprattutto, la Cina, nella regione, e con la disgregazione di Stati che, a prescindere dalla loro corrispondenza agli standard, peraltro in vulgata occidentale, di “libertà” e “democrazia”, rappresentano degli ostacoli o avversari al progetto neo-imperialistico degli Stati Uniti e dei loro alleati in quello scacchiere.

La guerra del Kosovo, datata 1998-1999, vede nella primavera del 1998 il momento di avvio di una più ampia repressione della popolazione albanese da parte della polizia jugoslava, innescata dall’intensificarsi della guerriglia separatista e dell’attività terroristica dell’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës), la formazione para-militare albanese-kosovara che si opponeva militarmente al governo legittimo nella regione. Nel corso dell’autunno del 1998 si contano già, secondo stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, oltre 200.000 profughi, sebbene risalga proprio all’autunno del 1998 la proposta di mediazione conseguita nella negoziazione di alto livello tra R. Holbrooke (inviato degli Stati Uniti) e S. Milosevic (presidente della Jugoslavia), la quale prevedeva il sostanziale ritiro di buona parte delle forze armate jugo-slave dalla zona e l’ampia smilitarizzazione dell’UCK che avrebbe dovuto cessare le proprie attività terroristiche, sotto il controllo di una missione di osservazione, monitoraggio e verifica internazionale da parte dell’OSCE.

La proposta di mediazione cadde nel vuoto per l’assenza di ogni progresso in ordine alla smilitarizzazione e per la prosecuzione delle attività della guerriglia armata nel cuore della regione; nel Gennaio 1999, la mediazione poté dirsi completamente fallita e la situazione peggiorò drammaticamente, a causa della spirale ritorsiva tra la guerriglia albanese-kosovara e la repressione da parte delle milizie jugoslave, fino allo stallo di ogni colloquio diplomatico e all’esaurimento della missione stessa dell’OSCE. Poco dopo, nel mese di Febbraio 1999, fallirono anche i negoziati intrapresi a Rambouillet tra una delegazione albanese e una delegazione jugoslava, sotto la pressione degli Stati Membri del c.d. “Gruppo di Contatto” (vale a dire Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Francia, Germania e Italia). La proposta di accordo venne infatti respinta sia dalla delegazione albanese-kosovara (perché non sanciva esplicitamente la futura indipendenza del Kosovo), sia dalla delegazione jugoslava (perché prevedeva il dispiegamento sul territorio jugoslavo di una forza militare della NATO con libertà assoluta di movimento e di azione contro il principio medesimo di sovranità).

Nel giro di poche settimane, nel Marzo 1999, la guerriglia albanese-kosovara, convinta dalle pressioni, rassicurazioni e raccomandazioni statunitensi, dichiarava di accettare la proposta di Rambouillet, lasciando così la parte jugoslava sola nel rifiuto della proposta, peraltro ampiamente viziata dall’aperta faziosità del tavolo di negoziazione e dal carattere-capestro delle clausole imposte. A tutto ciò si somma, da parte dei comandi militari della Jugoslavia, la convinzione di riuscire a sconfiggere “sul campo” la guerriglia dell’UÇK nonostante l’ormai probabile intervento militare dell’Alleanza Atlantica, fino a prefigurare l’eventualità di una ipotetica spartizione della regione, per rivendicare l’acquisizione di un’area del Kosovo etnicamente omogenea.

Nel giro di appena cinque giorni, dal 20 al 24 Marzo 1999, si sviluppò una dura campagna repressiva tra quelle messe in atto sin dall’autunno precedente dalle forze jugoslave nella regione, al punto da causare, in un lasso di tempo così breve, ca. 15.000 profughi. Tale circostanza venne manipolata e strumentalizzata dai circuiti mediatici e politici “occidentali” al punto da farne il presupposto “oggettivo” dell’aggressione. Lo stesso 24 Marzo 1999, i Paesi dell’Alleanza Atlantica cominciarono i bombardamenti su tutto il territorio della Serbia, ufficialmente in chiave dissuasiva, senza mandato di legalità da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dunque in conclamata, aperta e palese violazione della legalità e della giustizia internazionale.

La strategia seguita dall’Alleanza Atlantica mostra chiaramente come l’obiettivo immediato non fosse quello di evitare un’incombente tragedia umanitaria e proteggere la popolazione albanese-kosovara in pericolo, piuttosto quello di sconfiggere militarmente la Jugoslavia di Slobodan Milosevic, al fine di accelerarne la disgregazione e di consentire una rimozione del gruppo dirigente socialista, imponendo l’abbandono del Kosovo come contropartita della salvaguardia della Serbia, ovvero – se necessario – procedendo ad una vera e propria debellatio del governo, del sistema e del principio stesso della Jugoslavia in quanto tali. Lo mostrano la scansione e l’intensità dei bombardamenti (al ritmo di centinaia di raid aerei giornalieri): vennero attaccati e distrutti, anche in tal caso in violazione della giustizia internazionale, obiettivi non-militari e infrastrutture civili, impianti industriali, raffinerie di petrolio, oleodotti, ponti, ferrovie e strade, sino al bombardamento di Belgrado (il precedente più vicino era stato il bombardamento nazista, del 6 Aprile 1941) e di obiettivi quali la sede della televisione jugoslava e perfino il palazzo dell’ambasciata cinese in Serbia, per non parlare degli edifici governativi e delle centrali elettriche (inizialmente bombardate a ripetizione con “bombe alla grafite”).

La campagna militare, tuttavia, non raggiunse l’esito dichiarato: non è servita alla rimozione dal potere di Slobodan Milosevic e non ha concorso in alcun modo alla protezione della popolazione albanese del Kosovo. Si assiste così al sorprendente – voluto – paradosso di una guerra, non combattuta direttamente dalle presunte controparti, mediata dalla retro-azione di specifici interessi internazionali, fomentata dalle pressioni delle maggiori potenze imperialistiche, mirata a ri-legittimare in termini di potenza la presenza USA e NATO nella regione e conclusa con uno stallo spettacolare che avrebbe portato, quale unico esito plausibile, l’alternativa secca tra la cancellazione della statualità Jugoslava e la liquidazione della comunità albanese del Kosovo. Quella che, prima della guerra, con il finto negoziato di Rambouillet, si proponeva di avviare il processo dell’auto-determinazione, della separazione e dell’indipendenza del Kosovo, dopo la guerra, la tragedia umanitaria e i 78 giorni di cosiddetti “bombardamenti umanitari”, si traduceva negli Accordi di Kumanovo, che riconoscevano l’integrità territoriale e la sovranità serba sul Kosovo pur garantendo a quest’ultimo una “ampia e sostanziale” autonomia, costituendo le basi per il mandato della missione ONU e di quella NATO.

Dopo l’accettazione della Jugoslavia del piano di pace elaborato dai Paesi del G8 e dell’incorporazione di tale piano di pace nella nota Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, i Paesi NATO misero ufficialmente fine ai bombardamenti il 10 Giugno 1999. La guerra è costata come nessuna precedentemente combattuta in Europa, salvo quella di Bosnia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ed a pagarne il prezzo, come sempre, i civili indifesi: 78 giorni di bombardamenti di crescente intensità, che hanno pesantemente colpito sia il tessuto industriale sia le principali infrastrutture della Serbia (dal grande impianto automobilistico Zastava alle fabbriche di elettrodomestici, dalle raffinerie di petrolio alle autostrade, dai ponti sul Danubio, tutti distrutti tranne uno, agli aeroporti civili, alle strade e alle ferrovie), con stime che sono state peraltro tutte riviste in crescita. Secondo una valutazione del quotidiano “Borba”, i danni inferti ammontano a oltre 10 miliardi di dollari nella sola Belgrado, con 600 edifici danneggiati o distrutti, e oltre 100 miliardi di dollari nell’intero territorio della Serbia. Tanto per intenderci, due volte e mezzo l’interno prodotto interno lordo della Serbia (40 miliardi di dollari) del 2013. Infine, secondo valutazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ca. 280.000 profughi, tra serbi, montenegrini e Rom provenienti dal Kosovo, senza contare i danni del lungo dopo-guerra: imposizione della maggioranza etnica albanese sugli affari della vita pubblica del Kosovo, marginalizzazione delle minoranze, ghettizzazione dei serbi-kosovari nelle loro enclavi chiuse, distruzione dell’economia e della società e disoccupazione stimata al 50% della popolazione.

Ecco, in breve, il piano strategico racchiuso all’interno dello sbandierato “modello Kosovo” che si va pro-pagandando anche per l’odierna Siria: un progetto di disgregazione e devastazione, umana e materiale, in spregio del diritto e della giustizia, indifferente a qualsiasi autentica ragione “democratica” o “umanitaria”, alimentato da una virulenta strumentalizzazione dei fatti e da una spietata manipolazione dell’informazione, cui è necessario opporsi con tutte le energie, a partire dalle forze democratiche, per la pace e contro la guerra.