Aggiornati al 7 febbraio, i dati UNHCR sui rifugiati siriani sono “scioccanti”, volendo usare il termine utilizzato dalla rappresentanza ONU il 30 gennaio alla conferenza in Kuwait, quando sono stati stanziati 1.5miliardo di dollari per l’emergenza nel Paese.

Il numero sui rifugiati siriani svela la dimensione della violenza nel Paese e la rapidità del fenomeno di sfollamento.

UNHCR stima una presenza di 792,118 rifugiati siriani, sia registrati che non, distribuiti tra Giordania (193,258), Turchia: (177,914), Libano (174,462), ‘Iraq (84,852) ed Egitto (15,057).

I numeri restano incompleti per la complessità del fenomeno; numerosi sfuggono al “censimento” perché dispongono dei mezzi per espatriare in autonomia, numerosi altri si sottraggono a una sistemazione nei campi, preferendo ripiegare in comunità e villaggi, come è per l’80% dei profughi che si sono riversati in Giordania.

Proprio il Regno hashemita è destinato a pagare un alto prezzo, nonostante il suo deficit interno e, dopo palestinesi e iracheni, con i flussi di profughi dalla Siria tornano alla ribalta le preoccupazioni di un tempo e si rischiano conflitti sociali tra le componenti. Dall’arrivo dei siriani nei villaggi giordani gli affitti sono schizzati alle stelle, mentre si abbassa pericolosamente il costo della manodopera.

Nel 2012 l’emergenza siriana è costata alla Giordania 600milioni di dollari e le proiezioni per il 2013 mostrano una spesa di 800milioni compatibilmente con la crescita dei flussi di profughi.

UNHCR rileva 40mila arrivi al mese in Giordania e il dato comprende solo i profughi registrati.

In due giorni a gennaio sono affluiti in Giordania 6mila siriani provenienti dalla città meridionale di Dar’a e dalla provincia di Homs dove, insieme a Damasco e Aleppo molti villaggi sono rimasti “deserti”, stando al racconto di alcuni operatori umanitari.

Za’atari è il campo profughi allestito in Giordania per l’emergenza siriana a luglio scorso. Il numero della sua popolazione è raddoppiato con i soli arrivi di gennaio e oggi conta 65mila profughi. Fondi permettendo, UNHCR potrebbe presto allestire qui un altro campo destinato ad accogliere 5mila profughi nell’immediato, e potenziale rifugio per 30mila. Se il trend non dovesse rientrare, in Giordania si prevede l’arrivo di 50mila siriani nel mese in corso.

Le autorità giordane lanciano l’allarme, mostrano stime pari al doppio di quelle UNHCR, con circa 350mila profughi e avvertono che il Paese non potrà più accoglierli senza un intervento internazionale a protezione della sovranità giordana.

Re ‘Abdallah lo ha dichiarato al World Economic Forum di Davos in Svizzera, quando ha chiesto aiuti finanziari, mentre il premier An-Nusur ha ammonito che, anche se dovesse essere l’ultima scelta, il governo giordano non esclude la possibilità di intervenire militarmente per chiudere le frontiere con la Siria.

L’emergenza siriana è davvero complessa; si sfugge dai bombardamenti delle forze di governo, ma anche dagli scontri e dalle razzie dei ribelli siriani, dalle violenze e dai riportati stupri. Questa è una delle ragione per cui nel dato rientrano numerose donne che fuggono verso i confini.

La stagione invernale ha messo a dura prova le agenzie umanitarie. A gennaio due bambini siriani sono deceduti nel campo di Za’atari a causa delle rigide temperature. I campi profughi non sono altro che tende. Tremila sono i container metallici donati dai Paesi Arabi.

Resta allarmante la situazione igienica nel campo nonostante la presenza di 42 medici e nove strutture sanitarie. Cinque nascite al giorno nel campo, cinque “profughi siriani” in più ogni giorno.

Spesso, per mancanza di fondi le Agenzie ONU devono fare delle scelte e così alcune aree all’interno il territorio siriano come accade per il campo di Atma, non riescono ad essere raggiunte poiché si dà la priorità ai campi allestiti all’esterno del Paese, come i 13 presenti in Turchia.

A ciò si aggiunge la difficoltà per le agenzie di coprire quelle aree prese dai ribelli siriani, Aleppo ad esempio.

Se la Giordania, tra una crisi e l’altra, ha lunga e intensa esperienza con l’accoglienza ai profughi, in tempo recente, suscita nuove preoccupazioni in Libano l’arrivo in massa di profughi.

260,000 rifugiati siriani, pari al 6.5% dell’intera popolazione libanese (4milioni) rifugiati nel Paese dei Cedri. Temendo che i campi possano divenire focolai settari di vecchi attriti che rievocano la guerra civile, molti di essi sono stati integrati in abitazioni tra le comunità libanesi.

Ai due punti di transito e di prima accoglienza allestiti da UNHCR con il governo libanese ne arrivano 3mila al giorno, e ora l’Agenzia ONU sta progettando un nuovo campo in cooperazione con le autorità locali. Non tutti però in Libano vedono di buon occhio l’esistenza di altri campi profughi nel Paese; l’esperienza di quelli palestinesi divenuti centrali nella guerra civile è un fuoco sotto la cenere.

In Libano inoltre, la questione fa emergere alcune divisioni e strumentalizzazioni politiche tra chi gli oppositori al regime di Bashar al-Asad che vorrebbero i campi come manifestazione della repressione del suo regime che ha portato alla morte di 60mila siriani in circa due anni, e chi invece, come Hezbollah e molti alleati di Al-Asad nel governo di Najib Miqati che preferiscono limitare le operazioni di aiuto presso le comunità sunnite.

Ci sono poi zone in Libano, come la Valle della Baqà’a in cui convivono cristiani, sunniti sostenitori di Hezbollah e sunniti con i ribelli siriani, dove è sempre alta la possibilità di scontri settari.

La vulnerabilità dei siriani in patria riaffiora nella condizione di rifugiati.

I protagonisti dell’intervento diretto mostrano debolezza; nonostante l’esperienza consolidata in ogni parte del mondo, le agenzie ONU lamentano mancanza di fondi.

Per l’emergenza siriana è stato lanciato il programma “censimento 2013” per la realizzazione del quale tuttavia, si dispone di una copertura finanziaria del 18%.

I fondi stanziati in aiuti in Kuwait per il Syria Humanitarian Response Plan (SHARP), in parte destinati ai 4milioni di siriani, 2milioni dei quali sfollati interni, e in parte ai campi esterni, non basteranno che per sei mesi, com’è è stato ammesso nel corso della riunione.

L’appello ONU ai Paesi del GCC come Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, non è stato casuale; “essi hanno una parte di responsabilità, e di coinvolgimento, nel conflitto e, a differenza dell‘Occidente, non hanno problemi di liquidità”.

Se i danni individuali e collettivi al popolo siriano non saranno facilmente ricucibili, altrettanto vale per una ripresa di società ed economia.

Precipitato nell’incertezza politica e nella spirale della violenza, il Paese, la cui economia è stata piegata al cuore delle proprie attività (agricoltura e turismo). Quattro miliardi di dollari sono le perdite derivanti dalle sanzioni stimate fino ad oggi.

La Siria non è certamente la Libia dove, nonostante il protrarsi delle tensioni, può sempre fare affidamento sulle proprie rendite petrolifere.

I danni a economia e infrastrutture siriane si aggirano intorno ai 11miliardi di dollari e le prospettive per una ripresa autonoma sono improbabili. Il Paese rischia di dover rimettersi quasi esclusivamente agli aiuti internazionali i quali non presentano garanzie di continuità oltre che a non essere sempre in sintonia con gli interessi della società.

Restano i grandi fondi internazionali, Fondo Monetario e Banca Mondiale, il cui intervento tuttavia, rischia di fare della Siria un Paese cronicamente indebitato, quando non costretto all’adozione di riforme liberali contro credito, com’è stata l’esperienza di molti Paesi della regione, dell’Africa e del Sudamerica.