Impaurito dalla narrazione ansiogena dalla politica della paura, disorientato dalla velocità della globalizzazione, l’uomo che si è impoverito e si trova ai margini di questo processo reagisce.

In ragione di un meccanismo fisiologico irrazionale, sente il bisogno di ritrovare i propri punti di riferimento identitari e comunitari grazie all’esclusione del diverso e di chi si trova al di sotto della piramide sociale, credendolo “causa dei propri mali”. Per potere escluderlo, ha bisogno di porre un limite fisico e di tenerlo a distanza.

Nella logica della ridefinizione della propria identità vi è quindi un fattore coinvolto in questo processo, oggetto di studio di due discipline apparentemente distanti quali la psicologia e la geografia: lo spazio.

Sotto la spinta della globalizzazione, se si immagina quanto siano collegate le metropoli di oggi, quanto siano avvicinabili due persone da un lato all’altro del mondo, e quanto il tempo, necessario a raggiungere qualsiasi meta, si sia deformato, si può affermare che tutte le distanze si siano relativizzate se non annullate.

Alcuni geografi si sono persino interrogati sull’apparente scomparsa della nozione di spazio, provocata dall’avvento della rete telematica come di un “non-luogo”, e quindi sulla “fine della geografia”.

Se a questo si aggiunge il fatto che il liberismo predica la libera circolazione di persone e merci questo effetto viene indubbiamente moltiplicato. Sempre meno padroni dello spazio abbiamo iniziato a preoccuparci di ridefinire quello sotto il nostro dominio, un po’ come accade quando da piccoli cerchiamo di stabilire delle linee immaginarie con i propri fratelli o sorelle o compagni di classe in macchina o nei banchi di scuola, promettendoci di non invaderle, per delimitare quali siano gli spazi di competenza.

Si è così scatenata una facile rivolta sovranista a tutti i livelli spaziali: nazionale e continentale con la chiusura delle frontiere e dei porti, ma anche personale con la volontà d’estensione della legittima difesa nella propria casa; un sovranismo persino digitale, che permette ad ognuno di essere padrone di un proprio spazio virtuale in cui realizzare i propri “bisogni sociali”, e nel quale si accenna uno sforzo di autodeterminazione della propria libertà attraverso il consenso prestato a termini della privacy, cookies e similari.

Per capire come questa rivolta si concretizzi nell’innalzamento di muri occorre ripercorrere in modo sintetico l’uso delle parole confine e frontiera.

“Finis” e “limes” sono i due termini latini che restituiscono una differenza: nel primo caso si tratta di una linea, il solco definito dal rex di epoca monarchica romana, in quanto autorità religiosa e morale; nel limes invece vi è l’idea di zona di contatto tra il mondo civilizzato e il mondo barbaro.

Col passare del tempo, in epoca moderna, confine e frontiera hanno finito per coincidere in lingua italiana perché, con l’affermazione degli Stati-Nazione, le divisioni territoriali si fondavano sulla definizione di con-fini, in cui si riconosceva l’”altro” insieme alle sue pretese territoriali.
Il termine frontiera è sopravvissuto nella sua veste americana o inglese nelle conquiste del west o nell’espansionismo mondiale inglese.

Contrariamente ai confini, il limes romano e le frontiere americane definiscono un’ interfaccia in cui si tendono a gestire dei flussi. La gestione dei flussi prevede che alcuni passino, ed altri no, sulla base di criteri sempre discriminanti.

Quali siano le caratteristiche umane o economiche che definiscano il diritto di entrare o meno, è oggetto di dibattito politico, ma la volontà di chiudere le frontiere sembra una reazione non ponderata di “chiusura a riccio” di chi vuole difendersi da qualcosa.

Il ritorno all’idea di frontiera come limite, come barriera, dopo anni di abbattimento di frontiere e muri per facilitare la circolazione delle merci e l’imperialismo commerciale delle multinazionali, rappresenta un ritorno all’idea che lo Stato possa ancora avere un ruolo.

Eppure prima si costruivano muri di con-fine nel quale si riconosceva il limite tra sé stessi, la propria nazione e quella vicina, implicitamente riconoscendo quindi l’Altro, seppur in concorrenza o in conflitto con la propria nazione.

Prima si costruivano frontiere che servivano a conquistare, come la Frontiera del West o il Limes romano che rappresentavano, agli occhi dei conquistatori che così giustificavano l’espansione, l’avanzare della civiltà in un mondo “arretrato”, “incivile”.

Oggi le frontiere ed in particolare i suoi muri fisici, le sue barriere, assumono un ruolo completamente diverso alle funzioni precedentemente svolte.

Prima rappresentavano l’affermazione di un potere, quello dello Stato, ora la sua crisi.
Come afferma Dario Gentili (1), “la loro costruzione svolge una funzione diametralmente opposta rispetto al passato.

Nel violare il sacro recinto murario tracciato da Romolo, trovò la morte il fratello gemello Remo, avversario di Romolo nella disputa per diventare il re di Roma: le mura di confine e la loro violazione comportano simbolicamente – in quanto reductio ad Unum dell’ambivalenza mitica della gemellarità – l’istituzione della regalità, che, ricorda Cicerone nel De re publica, può essere uno soltanto a impersonare.

Il rito della fondazione intendeva affermare prima di tutto, prima della stessa costruzione della città, il fondamento sacro del potere. […]

Anche oggi, la costruzione di muri sembra essere dettata, più che dall’efficacia, dall’esigenza di affermazione simbolica del potere, di rinvigorirne la sacralità perduta. Eppure, ciò che si rappresenta è soltanto la crisi e la fragilità – se non proprio il fallimento – della sovranità dello Stato-nazione […]

I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia della frontiera mobile americana – e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono immobili.

Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista, bensì di difesa; a differenza del con-fine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia, all’ordine interno, (o ad una presunta identità), così se ne giustifica sovente la costruzione.”

Su altra scala, un’esempio è dato dai muri che dividono le bidonville dalle guard gated communities (o in america latina, condomìnio fechado), ovvero quartieri ricchi blindati da mura e sistema di sicurezza, essi ghettizzano i benestanti che non solo non vogliono mischiarsi con la gente comune, ma esigono un sistema di sicurezza privato che non condividono con il resto della popolazione.

La creazione di barriere, filo spinato, frontiere è dovuta alla necessità di definire lo spazio che si sente proprio e quindi una promanazione di sé stesso e alla necessità di dominarlo dato che tendenzialmente scompare sotto la spinta della globalizzazione.

Dietro ogni muro c’è un processo politico di esclusione e inclusione di gruppi sociali, di perdenti e vincenti e quindi di ingiustizie.

Creare delle barriere, crea spesso delle ingiustizie e quindi conflitti.

Illudersi che queste possano fermare la mondializzazione è utopia pura e non offre niente più che la manifestazione clinica di un sintomo che serve solo a provocare divisione ed odio: il terrore di riconoscere nell’Altro, la proiezione del nostro futuro e l’ineludibile necessità di accettarlo, insieme alle nostre responsabilità.

(1) http://www.master-territorio-environment.it/wp-content/uploads/2015/12/Dario-Gentili-Confini-frontiere-muri.pdf